Mario Martone: «Teatro, amori, vita: per Scarpetta tutto era un affare di famiglia»

La famiglia Scarpetta nel film 'Qui rido io'. Foto Mario Spada, postproduzione FUORI GAMUT
La famiglia Scarpetta nel film 'Qui rido io'. Foto Mario Spada, postproduzione FUORI GAMUT

Nel suo prossimo film “Qui rido io”, il regista napoletano racconta la dinastia di Eduardo Scarpetta, tra figli ufficiali e illegittimi. Un’indagine sulla paternità. E un omaggio ai protagonisti del palcoscenico: dai Murolo ai De Filippo

La famiglia Scarpetta nel film 'Qui rido io'. Foto Mario Spada, postproduzione FUORI GAMUT
Mario Martone torna al cinema per scavare nel cuore segreto del teatro, il suo teatro, con un film che doveva essere una serie tv sulla grande avventura dei palcoscenici napoletani del ’900 e invece resuscita il “padre” - non solo in senso metaforico - dello spettacolo partenopeo moderno. Parliamo di Eduardo Scarpetta (1853-1925), autore e interprete di decine e decine di commedie popolarissime fra Otto e Novecento tra cui “Miseria e nobità”, “Un turco napoletano”, “Il medico dei pazzi” e “Sette ore di guai” ovvero “’Na criatura sperduta”, per citare solo quelle arrivate ai posteri grazie a Totò.

Ma anche e forse soprattutto fondatore di una gloriosa e ramificatissima dinastia che oltre ai figli “ufficiali”, Domenico, Vincenzo e Maria, comprende Eduardo, Titina e Peppino De Filippo, nati da una relazione con Rosa De Filippo, nipote di sua moglie Luisa; nonché altri due futuri attori nati da una sorellastra di Rosa ma destinati a recitare nella compagnia di Eduardo De Filippo sotto i nomi d’arte di Eduardo Passarelli e Filippo De Pasquale. Per arrivare fino a oggi con Eduardo Scarpetta, omonimo e bis-bis-nipote del capostipite, pure lui attore nel film di Martone che prende il titolo dalla scritta, celebre a Napoli, apposta dal teatrante sulla sua villa al Vomero: “Qui rido io”.

Anche se le cose sono perfino più complicate di così, come ci spiega Martone nella sua casa ingombra non solo di libri oggi introvabili dedicati a questa dinasty partenopea, ma di faldoni e scartafacci scovati in chissà quali archivi che hanno permesso al regista e a Ippolita di Majo, sua moglie e cosceneggiatrice, di illuminare gli angoli più bui di una vicenda che riflette la natura «tribale, impura e sacrale del teatro, tutto il teatro, da Molière a oggi».
Martone e Servillo sul set. Foto Mario Spada

«Dei tre figli ufficiali di Scarpetta e Luisa uno solo, Vincenzo, era di entrambi. Maria era figlia di una relazione precedente di Eduardo. Il primogenito Domenico detto Mimì, non a caso l’unico che non reciterà ma farà l’amministratore della compagnia, era figlio addirittura di Vittorio Emanuele II, che amava frequentare il teatro Sancarlino ed evidentemente apprezzava anche la futura signora Scarpetta. Lo prova il cospicuo assegno che il re spedì al commediografo dopo le nozze riparatrici».

Il film dunque segue i tre principali “palcoscenici” della vita di Scarpetta, che sullo schermo è e non poteva non essere Toni Servillo, con Maria Nazionale nei panni di sua moglie e Cristiana Dell’Anna in quelli di Luisa. Tre palcoscenici cioè famiglia, teatro e tribunale, anche perché «famiglia naturale e famiglia teatrale sostanzialmente coincidono», racconta Martone. «Gli anni su cui ci concentriamo vanno dal 1904 al 1908, quelli del clamoroso processo contro D’Annunzio (sullo schermo Paolo Pierobon) che attraverso la neonata Società degli Autori lo querelò per il suo “Il figlio di Iorio”, parodia dialettale del dramma pastorale dannunziano.

Popolarissimo e ricchissimo, Scarpetta aveva contro quasi tutta la combattiva intellighenzia napoletana dell’epoca, che non gli perdonava di aver sostituito l’antica figura di Pulcinella con la maschera moderna e borghese di Felice Sciosciammocca. Raccogliendo il testimone dalle mani dello stesso Antonio Petito, il grande interprete di Pulcinella, che nel 1876 era morto in scena proprio davanti a Scarpetta, altra coincidenza incredibile riportata nel glorioso musical di Ettore Giannini, “Carosello napoletano”. Alla fine il processo Scarpetta lo vinse, anche grazie alla testimonianza di Benedetto Croce (interpretato da Lino Musella). Però ne uscì spezzato. Pochi anni dopo si ritirò dalle scene, continuando a recitare solo per il cinematografo».

Intanto i figli crescevano, e con quei figli avuti da donne diverse, che però vivevano poco lontano o addirittura al piano di sotto, come Eduardo, Peppino e Titina, cresceva il suo prestigio, anche se oggi può sembrare strano. Ma cresceva anche un dolore che ci metterà anni a rivelarsi e che oggi è il cuore pulsante di “Qui rido io”. «Proprio così. Bisogna pensare che Scarpetta nel suo mondo era un re e come tale era trattato. Aveva case e cavalli. Le feste e i fuochi d’artificio nella sua villa al Vomero, che allora era campagna, si vedevano da tutta Napoli. Avere figli in giro faceva parte dei suoi privilegi.

Secondo una tenace leggenda sarebbe stato il padre naturale anche di Ernesto Murolo, poeta importante e a sua volta padre del grande cantante Roberto Murolo. È possibile, anche se Wikipedia al riguardo riporta una versione del tutto infondata, come ha scoperto Ippolita nelle sue ricerche, bisogna essere molto cauti, la sua storia è complessa. Non a caso quella che giriamo è la settima stesura della sceneggiatura. La serie originaria, due stagioni da dieci puntate, andava dal primo novecento a “Napoli milionaria”. Abbiamo capito presto che una sola puntata per Scarpetta non poteva bastare».

Dire Scarpetta significa infatti dire De Filippo. E anche se il film si ferma al 1908 («ma ci siamo presi alcune libertà con la cronologia, sia pure con rigore la nostra è un’opera di invenzione»), quei tre bambini che chiamano Scarpetta “zio”, Titina, Eduardo e Peppino, saranno sicuramente centrali.

«Per capire l’assurdità della situazione basta pensare che Scarpetta muore nel 1925, quando Eduardo è già un grande attore riconosciuto e riverito, ma di loro tre i giornali non fanno cenno», riprende Martone. «I funerali sono un evento memorabile, il corpo del teatrante, imbalsamato, è deposto in una bara di cristallo adagiata nello stesso carro funebre che era stato usato per Ferdinando di Borbone. Dietro il feretro sfila tutta Napoli insieme a un nutrito elenco di celebrità: eppure nelle cronache dell’epoca Eduardo, Peppino, Titina e Luisa, la loro madre, non sono nemmeno citati».

Anche se la loro paternità era nota a tutti, nominarli in un’occasione tanto ufficiale era impensabile. Così come riconoscere loro un diritto all’eredità. Il testamento concede a Luisa un vitalizio di 200 lire mensili. A loro nulla. Eppure lo “zio” li aveva cresciuti, anche severamente. Eduardo veniva legato alla sedia due ore al giorno, come Alfieri, per copiare oggi Bracco e domani Viviani, secondo il volere di quell’uomo che solo per caso avrebbe scoperto essere suo padre. E bisognerà aspettare il 1972 perché Peppino ammetta pubblicamente quello che tutti da sempre sapevano ma nessuno aveva mai osato scrivere. Eventi che magari non saranno sullo schermo ma sono centrali per Martone.

«Sulla prima pagina della sceneggiatura figura un brano di un’intervista di Luigi Compagnone a Eduardo per i suoi ottant’anni. “Il tuo - chiede Compagnone - era un padre severo o un padre cattivo?”. E Eduardo: “Era un grande attore”. In questo riserbo, in questa reticenza, sta tutto il film. Ma per capire quanto la questione della paternità non riconosciuta sia capitale in Eduardo, basta leggerlo con attenzione. Me ne sono accorto mettendo in scena “Il Sindaco del Rione Sanità” a teatro e poi al cinema, una delle sue due opere, con “Filumena Marturano”, in cui il protagonista non è piccolo borghese ma viene dalla strada. Cosa accomuna questi due grandi protagonisti, il camorrista Barracano e la prostituta Filumena? La paternità. È questo che crea una tensione e una potenza pazzesca».

«Nel “Sindaco” però il personaggio di Santaniello, il padre che rifiuta il figlio degenere, non è così centrale come l’ho visto io con Massimiliano Gallo», prosegue Martone. «Il teatro di Eduardo è piramidale, non ammette un vero antagonista. L’Eduardo regista faceva torto all’Eduardo autore in certo modo. Eppure è per Santaniello che Barracano si accende al punto di farsi uccidere, come per una specie di espiazione. Ecco, dietro questo conflitto vedi Eduardo, il suo dolore, quello che ha sempre taciuto. A differenza di Peppino, che sarà tenuto cinque anni a balia in campagna prima di conoscere sua madre e in età matura vuoterà il sacco con un libro terribile, “Una famiglia difficile”, rompendo definitivamente con Eduardo. Un libro da prendere con le pinze ma pieno di dettagli, fondamentale per studiare Scarpetta. Anche se bisogna capire fin dove arriva la cronaca lucida e dove cominciano risentimento e dolore. Lo stesso dolore che deve aver vissuto un altro grande rifiutato dal padre: Totò. Un dolore che misteriosamente non solo si trasforma in genio creativo ma in genio comico».

Tema gigantesco, oltre che urgente in tempi di eclissi del Padre, degno davvero di una serie. Chissà che un giorno quelle 20 puntate sullo spettacolo a Napoli nel ’900 non diventino realtà. Anche se per ora Martone, pensando anche ai suoi tumultuosi quarant’anni di lavoro, ai tanti gruppi fondati e rifondati, sottolinea i mille fili che dal genio pagano di Scarpetta portano fino allo spettacolo di oggi. Le liti intestine, la violenza di certe battaglie culturali, i bambini che debuttano accanto al padre, come ha fatto Francesco Di Leva con sua figlia Morena nel “Sindaco del Rione Sanità”, la natura inguaribilmente, necessariamente «tribale» del mondo teatrale. «Fra di noi ci piace dire che il sottotitolo segreto del film è “Autoritratto”. Ma scherziamo, sia chiaro».

L'edicola

In quegli ospedali, il tunnel del dolore di bambini e famiglie

Viaggio nell'oncologia pediatrica, dove la sanità mostra i divari più stridenti su cure e assistenza