
Nel caos delle memorie tragiche portate dalla catastrofe europea, che si sovrappongono ai traumi del conflitto armato fra i due popoli che si contendono lo stesso pezzo di terra, gli israeliani e i palestinesi, Keret tesse trame di felicità inaspettata. Narra di come si fronteggiano le angosce con ironia e con un pizzico di fatalismo, che contempla coraggio e voglia di vita. Ne parliamo in questa intervista.
Perché sentiamo tanto bisogno di raccontare, di condividere le nostre esperienze, le narrazioni? Lei spesso parla del “lato magico” insito in quell’esercizio.
«Douglas Adams, l’autore di “Guida galattica per gli autostoppisti”, parla di centinaia di usi possibili di un asciugamano. Se ne può fare: una gonna, una tenda, un fazzoletto per pulirsi il naso e via elencando. Anche i racconti hanno mille usi possibili. Ci aiutano a vivere la realtà con lo sguardo di un altro da noi e quindi allenano il muscolo dell’empatia. Faccio un esempio: tramite il racconto, io israeliano, sono in grado di vedere la realtà con gli occhi di un palestinese, oppure, io uomo di sinistra posso assumere lo sguardo di un colono di destra. Poi c’è un altro uso, importante: il racconto aiuta a dare un un senso etico ed estetico a un serie di fatti del tutto arbitrari. Continuo. La narrazione stabilisce un nesso causale al caos del mondo, e infine è un ottimo modo per combattere la solitudine, perché in un racconto si crea un sistema relazionale con i protagonisti e con coloro che hanno un rapporto con i protagonisti. Mi permetta di citare il mio più recente libro».
Prego.
«Penso che con “Un intoppo ai limiti della galassia” sono entrato in sintonia con lo spirito del tempo del coronavirus perché parlo della nostra guerra contro la solitudine, della nostra distanza dall’altro e anche di come il nostro mondo cambia velocemente e diventa sempre meno comprensibile».
Non dica che aveva previsto l’epidemia e la vita degli umani dopo il coronavirus.
«Certo che no. Però, da scrittore ho avuto un presentimento. Le racconto una storia. Ero bambino quando misero il primo bancomat a Ramat Gan, la città dove sono nato e cresciuto. Ricordo quando mia madre disse: “non imparerò mai a usarlo”. Ma poi imparò e da oltre 40 anni lo usa. Oggi invece mentre impari a usare una nuova applicazione, sai già che quando avrai finalmente capito come funziona quella applicazione sarà diventata obsoleta. Una volta, quando avevamo i mobili di legno, li conservavamo perché erano una specie di investimento; oggi con i mobili di plastica, non ci importa di buttarli via dopo pochi anni. Tanto ne compriamo di nuovi. L’impressione è che tutte le cose, tutti gli oggetti hanno una durata molto limitata nel tempo. Ora, l’idea che tutto abbia una scadenza come fosse uno yogurt mi disorienta, perché non riesco a trovare un’ancora nella vita. E perfino le convenzioni politiche e culturali cambiano velocemente. Oggi una persona può dire: “Afferri le donne per la f---a”, e diventare poi presidente degli Stati Uniti, oppure dire che il coronavirus non esiste, cambiare parere e nessuno se lo ricorda. La nostra realtà è come la memoria del pesce rosso, che in venti secondi la perde. Voglio dire: l’idea della continuità è cessata molto prima della pandemia. Ora siamo solo a un ulteriore giro di vite».
Nei suoi libri parla sempre di arbitrarietà del destino, di come le cose succedono per caso. E in fondo la casualità regna sovrana. Però, al contempo, siamo sempre convinti che tutto può essere previsto, pianificato, che ci sono pochissimi limiti. Noi due avevamo appuntamento ad Amburgo, ci sembrava naturale che l’avremmo rispettato, e non vedevamo nulla di strano nella facilità dei nostri spostamenti, rispettivamente da Israele e dall’Italia. E invece eccoci qui, a parlare al telefono, con un video che non ci dà la sensazione di intimità.
«Stiamo parlando di hybris. Noi umani siamo così bravi e intelligenti da essere in grado di andare nello spazio. Poi però dobbiamo constatare che la natura è più forte di noi. Lo constatiamo quando arriva uno tsunami, un terremoto, un evento che ci ricorda che siamo solo una scimmia glabra. Quello che cambia con il coronavirus è che in genere nelle situazioni di pericolo siamo costretti a prendere decisioni e essere dinamici. Qui invece ci hanno chiesto di entrare in letargo. Una situazione, questa, che richiamava (e così resterà nella nostra memoria, penso) lo Yom Kippur, il giorno di digiuno di 24 ore, quando congelando le attività si entra in una situazione esistenziale in cui non ci si pone problemi come: devo arrivare in orario al lavoro per non essere licenziato. E quindi siamo stati messi in condizione di riflettere su noi stessi. Certo, dover restare a casa per qualcuno è stato paradiso, per altri un inferno. Lo chef del ristorante più famoso di Tel Aviv mi ha raccontato che per lui quella è stata la vacanza più lunga della sua vita, così intensa e importante nei rapporti con i figli da avere l’impressione che i soldi persi fossero spesi invece benissimo. C’è poi chi ha scoperto, al contrario, di continuare a convivere con il proprio partner solo per inerzia».
Ha fatto un ragionamento classista. Lo chef ha molti soldi. Diverso è per una famiglia di quattro o cinque persone che abita in sessanta metri quadri e dove gli adulti hanno perso il lavoro o dove il marito è violento...
«Certo. L’economia, i suicidi. Io però non parlo da sociologo, ma da scrittore. La realtà è come un transatlantico gigante, un Titanic. Solo quando tutto è fermo possiamo dirci: forse siamo approdati in un un altro luogo rispetto a quello voluto. Forse dobbiamo cambiare meta. Un domani, gli ambientalisti ripeteranno: dobbiamo usare meno aerei. I conservatori diranno: avete visto, la gente vuole ubbidire perché così si sente sicura. Stiamo in una situazione esistenziale per cui siamo al contempo sia nel paradiso che all’inferno. In concreto. Penso che le promesse di essere più attenti all’ambiente non saranno mantenute. Gli aerei riprenderanno a volare. Ma già il fatto che abbiamo potuto porci molte domande fa sì che questo sia stato un periodo di tempo di estremo interesse per chi è interessato a una riflessione seria».
Ha detto Titanic. Il mondo non è il Titanic.
«Il mondo no. Ma Israele potrebbe esserlo».
Perché?
«Perché di nuovo si parla dell’annessione dei Territori, del non concedere ai palestinesi un loro Stato. Non è un percorso che ci porterà verso un luogo sicuro e tranquillo».
«Un mio amico, durante i primi giorni del lockdown, sentiva tutto il rumore del cantiere edile accanto. Un cantiere che poteva restare aperto per lavori di emergenza. Ecco il suo racconto: “Gli operai erano palestinesi. Ci salutavamo dalla finestra con molta simpatia. Ed eccoci, eravamo in una situazione in cui noi ebrei eravamo rinchiusi in casa, quasi in coprifuoco, mentre gli arabi erano liberi”. Vede, a noi umani piace rovesciare la situazione, e per questo da bambini ci piace travestirci. Capiamo così che la realtà è solo la conseguenza di una scelta fra diverse opzioni. Il coronavirus ci ha fatto vedere quante cose che consideriamo di ordine ontologico, in realtà sono scelte che abbiamo fatto».
Scelte politiche?
«Un giorno, a scuola ci diedero per compito scrivere qual è la lezione della Shoah. Mio padre, quando glielo chiesi mi disse che si trattava di una cosa di cui non si poteva trarre un insegnamento unico. C’è chi ne trae la conclusione che gli ebrei devono essere fortissimi e non importa degli altri, c’è invece che non si debba opprimere gli altri. C’è chi aveva abbandonato la fede e chi l’ha trovata».
Dalla Shoah non si può imparare niente, perché dal nulla non si impara nulla.
«D’accordo. Ma il nulla assomiglia al tutto».
Capisco l’universalità dell’analogia con la Shoah. Tuttavia, durante la guerra, i combattenti antifascisti cantavano l’Internazionale, cercavano le notizie sulla battaglia di Stalingrado, credevano in un avvenire socialista. Così raccontavano gli uomini della Resistenza. Qui invece, trovato il vaccino, si tornerà alla vita di sempre. Altro che Resistenza.
«Certo, questa non è una storia di Spartaco, assomiglia piuttosto ad “Aspettando Godot”. Però il solo fatto che c’è un avversario, il virus appunto, avrebbe dovuto creare un sentimento di unità e di solidarietà. Però, un tale sentimento può crearsi solo sulla base di valori già esistenti. Se invece le tue radici sono quelle di una retorica di odio, di disprezzo, difficile che cambi qualcosa».
Come racconteremo il coronavirus? Con i diari dal vivo?«Noioso».
Sta dicendo che per fare letteratura occorre tempo?
«Penso che oggi bisogna raccontare con umiltà come il virus abbia influito sulle nostre idee sul mondo, e non scrivere su come sarà il mondo. Non si può definire un processo prima che sia concluso».
Vivere e scrivere senza definire?
«Il bisogno di definire qualcosa non ancora terminato viene dall’angoscia. Lo capisco. Ma non dobbiamo definire, dobbiamo vivere. È come quando ami una donna. La puoi baciare, puoi fare l’amore con lei, senza che tu le dica: ti amo. Basta dimostrarlo l’amore, viverlo. Torno a parlare di mio padre. Quando conversavamo della Shoah diceva: “Non ci sono periodi cattivi, ci sono solo tempi difficili. E nei tempi difficili ci sono momenti diversi”. E ripeteva: “Ai tempi della Shoah, per la prima volta ho baciato una ragazza”. Ecco, la storia che racconteremo non sarà sulla situazione, ma come la situazione ci abbia cambiati».
E il ricordo? Che ricordo avremo?
«I miei genitori erano favorevoli alla rimozione. Un giorno venne da noi una persona della Fondazione Spielberg che raccoglie le testimonianze dei reduci. Voleva registrare i ricordi di mia madre. Varcata la porta chiese: “Posso entrare?”. Mia madre rispose: “Sei già entrato, hai fango sulle scarpe. E io dovrò pulire il pavimento”. E lo cacciò via. Detto questo, insisto: quando leggo Primo Levi non leggo della Shoah. Leggo l’autore che ha attraversato un’esperienza estrema. Fra dieci anni, il soggetto non sarà il coronavirus ma noi due che stiamo parlando insieme di un’esperienza che consideriamo difficilissima. Non si scrivono libri sul vento del deserto, l’hamsin, o sulla neve, ma sugli uomini che sudano nell’hamsin e hanno freddo nella neve. La storia che raccontiamo è sempre il risultato di una scelta, di una decisione su che cosa narrare e cosa no. Ecco perché il libro ambientato ai tempi del virus racconterà che tipo di persona è l’autore».
Lei, raccontando l’apocalisse quotidiana in Israele, parla spesso della felicità e dell’amore. Nonostante la paura. In un racconto dice: si può amare senza capire.
«L’amore è una situazione simile a quella di cui parlava Kirkegaard quando parlava della fede. Non puoi provare che Dio esiste. La stessa cosa vale per l’amore. La forza dell’amore sta nel suo lato irrazionale, nel fatto che non puoi capire perché ami. Se alla domanda “perché ami tua moglie” rispondessi: “è bella, è fedele, canta bene, è grandiosa nel letto”, allora parleresti non dell’amore ma di un ottimo affare. Ma se non trovi la parola vuol dire che il tuo legame con lei è irrazionale. Ecco, come la fede, anche l’amore è un bisogno umano. L’amore è la fede degli atei, è l’unico elemento irrazionale che noi non credenti rivendichiamo. Abbiamo bisogno della trascendenza per uscire fuori dal mondo spiegato e spiegabile».