Non si sa bene come andrà a finire. Ma nell'anno della pandemia in cui la vicinanza è stata rigorosamente bandita, il dibattito sulla presenza al teatro Ariston fa capire solo una cosa: comunque vada sarà un insuccesso

Il 29 gennaio del 1951 nasceva ufficialmente il Festival di Sanremo.Una serata di intrattenimento puro per gli ospiti del Salone delle Feste del Casinò.
Oggi a distanza di 70 anni giusti giusti delle suggestioni legate al ricordo lontano non esiste più nulla: la parola Salone fa subito effetto assembramento, le Feste ce le siamo ormai dimenticate, i Casinò hanno le ragnatele. E il festival stesso, la sua sola supposta esistenza possibile in quel del prossimo marzo è diventato argomento di puro scontro, come una crisi di governo qualsiasi in cui ogni politico, virologo, opinionista, esperto eccetera, dice la sua, sperando che sia l'ultima parola, ben consapevole che sarà al massimo la seconda, sicuramente secondaria.

Al centro della Grande Polemica c'è una questione che ogni anno è stata trattata come la più marginale in assoluto: la presenza o l'assenza del pubblico nel Teatro Ariston. Quelle persone sbeffeggiate dai commentatori professionisti che pagavano cifre iperboliche per sfoggiare la pelliccia sulle poltrone di velluto, una massa che applaudiva o fischiava con foga in maniera inversamente proporzionale ai risultati della classifica. Se Mino Reitano intonava Italia piangevano di commozione pura, rassicurando così i telespettatori che il brano non avrebbe avuto alcina possibilità di vittoria. Se fischiavano il principe Emanuele Filiberto si poteva tremare con la certezza della vittoria. E se gridavano al miracolo si poteva star sicuri che Toto Cotugno sarebbe arrivato secondo. Insomma, una massa indistinta di mogli di assessori, nipote dalle Americhe e direttori di rete con relative fidanzate pronti a fare colore, ma senza esagerare che si sa che l'abito da sera non brilla per i toni sgargianti. Nel recente passato invece, veniva considerata praticamente solo la prima fila, dove si accomodavano persone imparentate con il mondo televisivo, star e starlette, in qualche modo legati a quello che stava accadendo incidentalmente sul palco.

Ma questo si sa era il mondo del prima, quello in cui le parole sgorgavano spontanee, senza una mascherina a far da filtro. Il mondo del prima in cui il prequel del Festival, da sempre il momento più divertente, dava spazio a polemiche sul nulla in cui ci si accapigliava con entusiasmo, sino a che poi lo spettacolo aveva inizio e nessuno se ne ricordava neanche più.

Ora, nel timore che questo momento di dibattito convulso diventi l'unico, ci si danna proprio sulla presenza di quell'inutile pubblico, a cui onestamente nessuno aveva mai pensato prima come parte fondante del carrozzone immaginifico a cui siamo tutti così forsennatamente legati, appunto, da settant'anni. Perché per la prima volta ci sentiamo chiamati in causa, noi che pubblico non lo siamo più, perché non entriamo nei teatri, nei cinema e nei concerti. Non ci sediamo gli uni accanto agli altri. Non appoggiamo il gomito nel bracciolo del vicino. Noi che un vicino lo dobbiamo rifuggere spruzzando gel.

E mentre si aggrovigliano le ipotesi, rimandiamolo, annulliamolo, poltrone vuote, studio televisivo, spostiamolo a Roma, vacciniamoli tutti, solo figuranti, solo deserto, pro, contro, citazioni aristoteliche e opinioni ministeriali, resta quel senso di sabbia mobile, dove tutto trema, in maniera umida e instabile, pronto a risucchiarti. Se salterà il Festival perché non verranno concessi i figuranti, al netto delle perdite economiche sarà un abbandono della più efficace arma di distrazione televisiva di massa in nostro possesso. In caso contrario, Festival a porte chiuse, ci ritroveremo con uno spettacolo a metà, spogliato del suo dovere principe, quello di riportare il telespettatore a un senso di perduta normalità. Così, nessuna delle due squadre, Festival sì Festival no, può dare veramente torto all'altra, perché la ragione in mezzo a una pandemia non esiste. Se non quella della perdita, della sconfitta, dell'assenza. Un po' come Bugo che abbandona il palco.

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