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Cultura
ottobre, 2021

«Non è vero che il romanzo è finito, le scritture non omologate resistono»

La critica è sempre più desueta. E i critici-scrittori sono spacciati. Ma i libri originali e di qualità esistono

Cotroneo ha scritto su queste pagine che non esistono romanzi (o romanzieri) non convenzionali, non asserviti alle leggi di mercato, Moresco ha corretto: non esisteranno, all’infuori di me. Parente ha infine aggiunto che ci sarebbe pure lui, ma nessuno se ne accorge, perché «è Batman», non va ai premi, eventi mondani, ma soprattutto perché la critica lo ignora. Vorrei ripartire da questo punto.

Dall’impossibilità di essere critici, oggi, in Italia. O meglio: dall’impossibilità di essere critici e scrittori insieme. Si è sempre fatto: Montale lo chiamava “il secondo mestiere”, Pasolini scriveva corsivi che citiamo più delle poesie e dei romanzi (con i mantra dell’omologazione, della mutazione antropologica, del genocidio culturale), Edoardo Sanguineti radunò i suoi interventi militanti nei “Giornalini”. Ma erano gli anni Sessanta e Settanta, forse si è potuto ancora fino alla soglia dei Novanta, dopo si è cominciato a parlare di «crisi della critica» (Segre), di “Eutanasia della critica” (Lavagetto), infine la critica non è esistita più nemmeno come disciplina accademica (fagocitata dal settore di “Letterature comparate”).

Oggi se sei un critico-scrittore sei spacciato. Sei spacciato già solo se sei un critico, perché a parte i supplementi d’antan, il cui prestigio sopravvive per lo più nella fascia anagrafica degli aventi diritto alle Rsa, la critica come “giudizio di valore” pare desueta come la zappa o il cannocchiale, a petto della freschezza e della immediatezza di BookTube, il luogo in cui si parla non di quel libro che gli happy few hanno letto, ma di tutti i libri da leggere tutti insieme, e lo si fa in termini di Tier list, TBR (=to be read), GRWM (=get ready with me), e giù commenti, like, cuoricini. E poi c’è Bookstagram, sempre più dominante, per facilità di allestimento e garanzia di hype.

Fino al 2010 scrivevo prevalentemente poesie (e saggi). Ma la poesia va bene: è marginale, inoffensiva, non competitiva. Non esiste nelle classifiche, nei premi maggiori, non c’è nelle vetrine, i poeti che vendono sono due, di cui una è morta: si chiamava Alda Merini e a chi oggi scrive col googlism o l’uncreative writing non può che provocare orticaria. Ma perché, invece, non si può essere critici e scrivere romanzi? Dicono: perché non saprai più giudicare con la stessa attendibilità. Poi ti fai un giro per social o supplementi e ci trovi praticamente solo scrittori che magnificano altri scrittori: capolavoro, stupendo, ti sei superato/a. Quindi “il critico-scrittore” manca di credibilità se parla di uno scrittore, “lo scrittore-scrittore” è credibile anche se grida al capolavoro a ogni uscita di quello che poi griderà al capolavoro per ogni uscita sua.

 

C’è un’altra ragione, per cui, se hai fatto il critico e un giorno scrivi un romanzo, commetti il più grande errore della tua vita. Se hai fatto il critico e l’hai fatto seriamente, qualche nemico ce l’hai. Diceva Charles Mackay (citato dal personaggio della Thatcher in “The crown”): «Solo chi non ha agito, non ha dei nemici». Se hai agito, cioè se hai preso posizione, se sei andato a fondo, motivando, argomentando, ovvero criticando, hai dei nemici. E come dice un altro poeta, stavolta francese, Espitallier, «gli amici degli amici dei nemici dei miei amici sono miei nemici». Cioè, un bel casino. Quando pubblichi un romanzo hai un ufficio stampa, che si chiama così non perché sia un “ufficio” (specie dopo la pandemia, lavora dalla scrivania di casa sua), ma perché ha rapporti con la stampa. Telefona ai direttori dei giornali o dei supplementi e propone il libro, e lo fa di solito con largo anticipo, affinché i giornali, che sono sommersi dalle nuove uscite, abbiano il tempo di organizzarsi per una eventuale recensione.

 

Quando collaboravo con le pagine culturali (anche adesso collaboro, ma mi occupo di poesia, che, dicevamo, conta meno del due di coppe quando è briscola bastoni), il motivo per cui non recensivo un libro era che non mi pareva meritevole di un discorso critico, e morta lì. I motivi che qualche ufficio stampa, nel tempo, mi ha riferito per mancate recensioni sono: quello ti odia, quello non ti vuole nemmeno sentir nominare, a quello gli hai stroncato l’autrice o l’autore (perché ci sono direttori di giornale che sono anche editor: conflitto di interessi non ti temo). Poi si dà il caso dei supplementi su cui hai scritto degli anni, magari gratis, “che fa curriculum”. Tu eri a disposizione anche di sera tardi, di domenica, al mare (ricordo un ferragosto bucato per recensire la Kristeva). Ma se gli scrivi: «È uscito un mio romanzo», non ricevi risposta. Perché un critico non può fare lo scrittore: li disorienti, non sanno come incasellarti. Qualche tempo fa di fronte al mio scoramento per la critica ridotta a divulgazione e mera promozione all’interno di un circuito chiuso e inaccessibile ad autori, o meglio a scritture irregolari, anticonvenzionali, un collega scrittore (e critico, pour cause) mi faceva riflettere su un dato che somiglia alla lettera di Poe: ce l’hai sotto gli occhi e perciò non lo vedi. Alla fine, mi diceva, a contare sono davvero i lettori, al di là di ogni retorica, perché sono loro che spendono quei diciotto euro per il tuo libro, gli altri lo ricevono gratis. Vero è che i lettori come lo sanno che esiste il tuo libro, se nessuno glielo dice (piove sul bagnato, e in tivù, ai festival maggiori, nei contesti che “muovono copie” a figurare sono pochi, sempre più o meno gli stessi)?

 

Con umiltà e passione, senza ridursi alle vendite porta a porta come per il folletto o Lotta comunista, bisogna però dirglielo personalmente, e ridirglielo, girare, andare ai festival anche piccoli o piccolissimi, approfittare di tutti i mezzi. Per fare cosa? Autopromozione selvaggia? No, esattamente per mostrare e dimostrare che a differenza di quel che pensa Cotroneo, le scritture non omologate esistono e resistono, ma non hanno e non avranno mai la stessa risonanza dei prodotti seriali. Del resto, nel 1830, il Premio maggiore dell’epoca lo vinse il Botta. Chi? Nessuno oggi sa chi sia, ma tutti conosciamo e leggiamo l’illustre trombato dell’epoca: Giacomo Leopardi, con le “Operette morali”.

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