Le radici della musica? Sono proprio dove l’Islam più feroce vorrebbe farla sparire

Strumenti, sculture, spettacoli. E un esercizio di calligrafia sul corpo di una danzatrice. In mostra a Roma al Cappella Orsini Lab il viaggio delle note dall’Asia centrale al resto del mondo. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia araba

Una famiglia riunita dalla musica. Il padre suona il sitar, la madre canta, i bambini ascoltano felici. È una scena di grande allegria in un contesto che sembra turco: però su un lato del disegno c’è una scritta in ideogrammi. E in effetti l’immagine riprodotta dall’artista cinese, negli anni Quaranta del Novecento, si svolge in un villaggio locale: quel gruppetto felice è una famiglia di uiguri, la minoranza musulmana che oggi in Cina soffre discriminazioni e violenze indicibili. «Nei loro villaggi sembra proprio di stare in Turchia», conferma l’antropologo Roberto Lucifero. «Ci sono stato anni fa, di nascosto, perché le autorità non vogliono che gli stranieri abbiano contatti con loro».

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Il foglio dipinto è appeso sulla scala che unisce i due piani della chiesetta sconsacrata nel centro di Roma, dietro Campo de’ Fiori, dove ha sede il Cappella Orsini Lab. Qui, fino al 30 marzo 2022, la mostra “I canti di Eurasia”, curata da Lucifero con la collaborazione di Giulia Gualtieri, offre ai visitatori un racconto di religioni e culture unite dalla musica. Un’impresa scientificamente accurata (è realizzata in collaborazione con la cattedra di Etnomusicologia della Sapienza e presentata da Raniero Gnoli, decano degli orientalisti) ma attraente anche per un pubblico affamato di un esotismo difficile da saziare in tempi di pandemia (è aperta tutti i giorni dalle 14.30 alle 19.30, più gli appuntamenti serali). Senza contare che a Roma, dopo l’improvvida chiusura del Museo d’arte orientale di via Merulana, vedere tesori artistici dell’Estremo oriente non è facile.

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Il visitatore compie un viaggio su un tappeto volante cinese (è disegnato con grande maestria su un piattino della dinastia Ming) dal Mediterraneo al Giappone, e ritorno, per mostrare come la musica unisca il mondo: «Del resto il cervello umano in tutto il pianeta è stato forgiato dai suoni della natura: vento, acqua, foglie», spiega Lucifero. «È nato così un legame animistico con il pianeta a cui noi occidentali abbiamo rinunciato, ma che cerchiamo inconsciamente di recuperare con la passione per l’India e per l'Estremo oriente».

A raccontare questo legame, una collezione straordinaria di 250 oggetti che uniscono alla bellezza delle opere d’arte il fascino del legame con musica e spettacolo: una Venere del secondo millennio a.C. che sembra cantare battendo il ritmo con le mani, aggraziate danzatrici cinesi, statue di bronzo di dei indù musicisti che, a dimostrazione del sincretismo religioso, provengono dal Siam buddhista, un fregio con una processione di musicanti buddhisti scolpito in Pakistan nel I secolo d.C. in uno stile ellenistico che rimanda alle conquiste di Alessandro Magno. E poi maschere teatrali balinesi feticci neoguineani, burattini giavanesi, sagome per il teatro delle ombre tailandesi, ornamenti del teatro Khatakali…

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Gli strumenti prendono vita grazie a una app realizzata dalla società Sharzach, che permette al visitatore di sentir suonare tutti quelli esposti: l’erhu cinese che suona proprio come il canto degli uccelli, il lungo corno tibetano, il tar persiano scolpito nel legno di alberi colpiti da un fulmine, la lira calabrese o il gadulka bulgaro che accompagna la musica overtone, canto profondo simili a quello dei tenores sardi. Il catalogo delle edizioni La Lepore permette di rivivere sulla carta questa scoperta di “espressioni del sentimento sonoro dal Mediterraneo al Mar della Cina meridionale”, tra testi monografici e illustrazioni.

Sullo sfondo, un triste paradosso: «La musica è nata proprio in quelle zone, dalla Persia all’Asia centrale, dove oggi l’Islam più rigido vieta canti e balli, dove farsi trovare in strada con uno strumento musicale significa farselo distruggere dalla polizia». A questa censura per motivi religiosi gli organizzatori della mostra, che è finanziata anche dall’Unione Buddhista Italiana, rispondono con un’apertura totale, evidente sia nell’esposizione che nel programma di incontri e spettacoli serali. Dove, tra un concerto di musiche tradizionali persiane e i canti della tradizione ebraica sefardita (con Evelina Meghnagi e Sylvie Genovese) o un viaggio dalla tamurriata al sufismo, il 17 novembre vedrà un calligrafo sufi, Amjed Rifaie, dipingere i suoi arabeschi sul corpo di una danzatrice nuda, l’algerina Nadia Slimani.

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