Il furgone rallenta e si ferma in cima al cavalcavia. Il padre resta sul ponte a guardare mentre i figli, due ragazzini, scendono giù giù in quella discarica abusiva a cercare rottami metallici che l’uomo tira su a forza di braccia. Tra quelle ferraglie chissà come finisce anche una madonna di gesso che sale dondolando appesa a una corda contro un cielo rinascimentale scolpito dalla fotografia di Paolo Ferrari. È l’inizio, vibrante, di un film che accarezza la superficie delle cose per portarci in fondo al cuore dei due protagonisti, Oscar e Stanley.
Oscar, il figlio minore di quel padre padrone che ha già deciso tutto e gli sta addosso, lo incita, lo controlla, lo sfrutta. Stanley, il ragazzone nigeriano con un fisico da guerriero e una vita fatta di lavoretti precari e di pazienza infinita. Oscar che esprime rivolta a ogni sguardo ma non ha neanche le parole per dirlo. Stanley che incontrerà Oscar in una sola, memorabile scena in tutto il film. E intanto vive con un compatriota che gli rinfaccia di non saper sfruttare il suo permesso di soggiorno.
Non fosse un grande esempio di cinema del reale, “Il mio corpo” sarebbe un western. Un western contemporaneo, e in cinemascope, girato nell’interno della Sicilia fra discariche abusive e miniere di zolfo abbandonate. Un western “imploso” e senza cowboy, ma con greggi di pecore e pastori dalla pelle scura, in cui non ci sono nuove frontiere o terre da conquistare. Solo il corpo a corpo quotidiano con una realtà che nega ogni spazio. Trasfigurata da un regista che per lo spazio ha un occhio speciale. E racconta queste vite parallele attraverso sguardi, silenzi, atmosfere. Come se a quel western fosse stata tolta la trama per lasciare l’essenziale. Conflitti, tensioni, epifanie. Una casa ancora addormentata in cui su ogni corpo cade una luce creaturale. Una notte di veglia accanto a un letto vuoto. Un’altra notte passata invece accanto a qualcuno di cui sentiamo appena il respiro.
Non siamo lontani da altri maestri dell’attesa e dell’osservazione come Gianfranco Rosi e Roberto Minervini (dietro “Il mio corpo” ci sono tre anni di lavoro). Pennetta però riesce a schivare ancora più decisamente ogni giudizio o denuncia, lasciando allo spettatore il compito di capire. Cinema dell’ascolto, e dell’attenzione. Oggi più raro e necessario che mai.
“Il mio corpo”
di Michele Pennetta, Italia-Svizzera, 82’,
su ZalABB, CG Digital, Chili, #IoRestoInSala