«Quando essere invisibile è peggio che non vivere», canta Laura Pausini nella canzone "Io sì (Seen)" vincitrice di un Golden Globe e candidata agli Oscar come miglior canzone originale del film "La vita davanti a sé" di Edoardo Ponti. Non stupisce l'interesse internazionale per questo testo perché nella sua semplicità pone al centro una parola chiave del dibattito contemporaneo: l'invisibilità.
L'invisibilità o la visibilità delle persone, dei loro desideri, dei loro diritti è oggetto di grandi discussioni nell'opinione pubblica. Non a caso durante la pandemia in molti Paesi chi è rimasto colpito dalle chiusure e dai blocchi imposti dagli Stati, ha manifestato il disagio fortissimo nell'essersi sentito invisibile rispetto ai decreti e alle decisioni politiche.
Ma di quale invisibilità stiamo parlando? Era il 1884 e Matilde Serao sfidava Agostino Depretis contro il suo celebre e lugubre monito «Bisogna sventrare Napoli» per ripulirla dal morbo del colera. Serao rispose che questi politici non sapevano nulla di quel "ventre" che volevano aprire e distruggere, e che era intollerabile perché: «Voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto» e quindi vedere tutto.
La sensazione che il potere guardi sempre dove gli conviene e faccia finta di non sapere è parte della storia dell'umanità. Mentre la gente, il popolo, i cittadini si ritrovano spesso nelle zone d'ombra, ed è in quegli spazi senza sole che cresce lo sfruttamento, il disagio, la disperazione di chi non è visto, non è compreso, su cui calano dall'alto le decisioni altrui.
La percezione che tale ombra copra sempre più ampie fasce della popolazione è cresciuta durante questo ultimo anno: dalla questione dello Ius soli fino al lavoro di rider e magazzinieri, da chi lavora con gli anziani a chi arriva dal mare nel nostro Paese ogni giorno, da chi subisce nelle campagne le logiche del caporalato ai lavoratori in nero. Grandi fette di popolazione si sentono non viste, assenti nei programmi politici, fuori dalle agende del governo. È recente la notizia che più di 500mila persone che si trovano in Italia non verranno probabilmente vaccinate perché appunto invisibili ai radar sanitari, assenti e non pervenute.
Giornali e media hanno raccontato la condizione di alcuni giovani nelle grandi città durante il primo lockdown di marzo 2020: donne e uomini con affitti in nero e lavori in nero, spesso presso ristoranti e bar, che con le prime chiusure sono velocemente rimasti senza casa e senza lavoro e, non potendo lasciare le grandi città dove si trovavano a causa del blocco assoluto degli spostamenti, sono rimasti prigionieri delle metropoli vivendo per strada, in attesa che il mondo tornasse a girare per permettergli almeno di rientrare a casa dalle famiglie.
Ma, sempre parlando di lavoro, è evidente quanto conti la visibilità. Sia per quanto riguarda il mondo dei social, dove ogni visualizzazione ha un suo prezzo, e più visualizzazioni hai più vieni pagato, quindi più sei visibile più vali; sia per quanto riguarda la gratuità del lavoro, soprattutto quello così detto creativo. «Ti pago in visibilità» è diventato uno slogan trito e ritrito, sbeffeggiato, discusso, eppure sempre valido. Tante e tanti ancora lavorano spesso gratis semplicemente perché quel lavoro verrà mostrato in un luogo di più o meno prestigio e quell'essere resi visibili potrebbe portare a occasioni future.
C'è quindi un affanno collettivo alla visibilità e insieme il terrore di cadere rapidamente nell'ombra e nel vuoto dell'invisibilità, soprattutto ora che la pandemia ha reso i fragili più fragili e i precari ancor più precari, aumentando il numero di chi a oggi si sente non visto, non tutelato, non rappresentato nel proprio lavoro, nei propri diritti e rispetto alle proprie condizioni di vita.
La lotta per i diritti è di fatto sempre stata quella per la visibilità, per il riconoscimento a livello legislativo, a livello politico. Perché la nostra storia e la nostra democrazia sono fondate sul privilegio e la "vista" di alcuni sugli altri. La lotta è stata e rimane quella per aumentare il cono di luce e far rientrare nello spazio dello sguardo politico, democratico, statale più partecipanti possibili. Il fascio si è allargato nel corso dei secoli, ma non c'è verso: qualcuno rimane sempre fuori ed è chi non ha soldi.
«Quando essere invisibile è peggio che non vivere. Nessuno ti vede, io sì». Nessuno vede gli invisibili, nessuno di quelli che contano, nessuno di quelli che preferiscono tenere gli occhi sui propri interessi, ma "io" sì, io nel senso di chi ha a cuore il prossimo, chi si schiera dalla parte dei non visti, chi sa illuminare.
Non a tutti questa ultima frase risulterebbe però come confortante o apprezzabile. Nessuno ti vede ma io sì, potrebbe sembrare anche una minaccia. Perché certo la visibilità è necessaria alla sopravvivenza sociale e l'ombra è il luogo dell'ingiustizia, ma essere più visibili può voler dire anche essere più controllati, essere oggetto di un potere meglio indirizzato.
Quando Jeremy Bentham progettava il Panopticon come esempio di struttura carceraria perfetta, era proprio alla vista che dava il ruolo centrale: in un edificio circolare di celle che affacciano tutte verso una torretta di controllo, i carcerati non vedono se c'è qualcuno nella torretta ma sapendo che potrebbe esserci si sentono sempre guardati e quindi sempre sotto controllo. Questo potere di controllo viene appunto definito "potere invisibile". Zygmunt Bauman parlando della globalizzazione, tra gli altri aspetti, sottolineava il fatto che questa ha generato una società della "sorveglianza digitale".
C'è quindi un cortocircuito all'interno della visibilità, da una parte è ricercata e necessaria alla vita, dall'altra è arma di sottomissione, di potere.Se ci pensiamo e ragioniamo sulla visibilità come scelta, come capacità di mostrare il proprio corpo e anche soprattutto la propria identità, c'è di certo un caso eclatante che ha mosso l'opinione pubblica letteraria degli ultimi anni: Elena Ferrante. L'assenza della persona Ferrante ha generato disturbo, incomprensione, perché è parso assurdo non dare un volto a quei romanzi così di successo. Per alcuni si tratta di un gioco, una scrittura a quattro o più mani, per altri invece non conta chi sia la persona che scrive perché sono i libri ad avere voce, ad avere corpo. Resta il fatto che nei confronti di Ferrante si è scatenata una vera e propria caccia all'invisibile, con tanto di conti bancari, case comprate, movimenti e guadagni. Nonostante sia parte della storia della letteratura l'uso di pseudonimi per i più svariati motivi, soprattutto da parte delle donne, questa pratica proiettata nell'era contemporanea genera sempre dubbi, accuse, sospetti.
Eppure sono in tanti a nascondere la propria identità pur lavorando in alcuni campi come l'arte, l'intrattenimento e la letteratura, basti pensare agli street artist come Banksy o il nostrano Blu che per ragioni soprattutto legali non vogliono esporsi con nome e cognome, ma anche alcuni youtuber come Corpse Husband che ormai sono seguiti da milioni e milioni di persone e che, volendo mantenere la propria vita privata intatta, non hanno mai mostrato la propria faccia in video né dato informazioni personali; o i rapper come Tha Supreme di cui molto si è sentito parlare negli ultimi anni, o la cantante Myss Keta che hanno reso celebre gli occhiali da sole e la mascherina per mimetizzare il volto.
Quasi tutti sanno che più le nostre identità sono visibili online più dati regaliamo alle multinazionali, dati che poi vengono venduti e usati per convincerci agli acquisti online e orientare le scelte di mercato.
«Nessuno ti vede, io sì» diventa in questa prospettiva una vera e propria intimazione. Spesso e in varie occasioni attraverso internet ci siamo sentiti quasi osservati, diventando a tratti paranoici rispetto alla nostra privacy, ai nostri conti bancari, alle nostre identità saccheggiate dallo spazio virtuale.
Insomma vogliamo o non vogliamo essere visibili? E siamo sempre consapevoli di cosa questo comporti? Forse bisogna chiedersi visibili a chi, visibili per quale motivo.
Forse essere consapevoli della invisibilità altrui ci aiuterebbe a misurare meglio il mondo, come facevamo da bambini e bambine, quando l'invisibile faceva parte della vita e l'altro invisibile era l'amico più prezioso.
Così ci spiega l'invisibile anche Natalia Ginzburg nel suo racconto del 1938 dal titolo "Il Maresciallo", dove un gruppo di bambini si convince della presenza di un Maresciallo sul divano della cantina in cui giocano. Il Maresciallo fa compagnia ai bambini tutti i pomeriggi, racconta le sue gesta, i suoi viaggi, mangia tutte le ciliegie e poi le sputa via definendole: «Pessime», e così fa col resto, mangia e sputa, racconta e mente e diverte. Finché il gioco finisce: uno dei bambini racconta del Maresciallo alla cuoca e da quel momento in cantina il Maresciallo non si fa più vedere. L'invisibile è stato sconfitto, il segreto è svelato e gli adulti hanno fatto irruzione nelle fantasie, ristabilendo l'ordine terribile di cosa esiste e cosa no.