“Il Sorriso dell’ignoto marinaio” di Vincenzo Consolo, uscito quasi venti anni dopo la pubblicazione del “Gattopardo”, è un’opera che non si può non confrontare con quella di Lampedusa a partire dai comuni riferimenti storici e dai personaggi. “Il Sorriso” si colloca in una posizione fortemente critica dell’impostazione ideologica del romanzo lampedusiano per suggerire una diversa prospettiva storica.
I protagonisti delle due opere, appartenenti all’aristocrazia siciliana, sono quanto di più opposto si possa immaginare. Entrambi coltivano arti e studi: il Salina è un matematico appassionato di astronomia, di stelle, cieli, comete e pianeti; il Mandralisca è un malacologo, si occupa di lumache. Una scelta non casuale, quella di Consolo, probabilmente provocatoria: volgere lo sguardo alla terra, alle sue radici, alle sue viscere, per quanto sgradevole possa esserne la visione. E da lì partire.
Nel Gattopardo assume un rilievo centrale il dialogo-monologo con Chevalley, a partire da quell’ultima cruciale parola che chiude la quarta parte del romanzo: “irredimibile”. Nel respingere l’offerta del seggio senatoriale Salina evoca la natura dei “Siciliani”, il loro avere in odio «il fare», l’anelito fondamentale è «ritrovare il proprio dormiveglia»: il sonno è «ciò che i Siciliani vogliono», tutto è «desiderio di morte»; il salto dalla storia alla metastoria è successivo: la natura dei siciliani deriva dalla Sicilia: «l’ambiente, il clima, il paesaggio […] che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata»; e ancora: i siciliani non vogliono migliorare perché «credono di essere perfetti, dei».
Se si esclude qualunque possibilità di cambiamento, allora sì che tutto appare “irredimibile”. La filosofia della storia di Salina è filosofia senza storia, senza uomini, è storia biologica e naturale. È solo uno strumento consolatorio e auto-assolutorio che offre un alibi. Per giustificare il fallimento di una classe dirigente nel confronto con le altre esperienze europee e italiane e, alla fine, per perpetuare il proprio potere all’insegna del trasformismo.
Questo monologo è stato uno dei testi letterari più citati, quello che più ha fatto avvertire il fascino di un mondo decadente (si pensi al film di Visconti), ed è stato citato a destra e a manca con compiacimento come se offrisse la chiave magica per interpretare la Sicilia e i siciliani e, in molti casi, i suoi contenuti sono diventati senso comune.
Non a caso, in alcuni scritti sulla mafia pubblicati da Bompiani nel 2017, “Cosa loro” (a cura di Nicolò Messina), Consolo disvela la mistificazione ideologica del «sentenzioso romanzo che è “Il Gattopardo”». «Noi fummo i Gattopardi e i Leoni; quelli che ci sostituiranno…», è la sentenza del Lampedusa. Ma non è stato così: «che i gattopardi e i leoni non sono stati del tutto sostituiti, ma che essi stessi si sono trasformati in sciacalli e iene e che forse tali sono sempre stati».
Il Mandralisca assicura il proprio sostegno all’Interdonato, liberale rivoluzionario in esilio, nel moto insurrezionale di Cefalù del 1856, in una situazione di assoluta incertezza e di grande rischio (clandestinità o carcere). Poi c’è lo spartiacque di Alcara Li Fusi a indurre una nuova radicale consapevolezza. L’arrivo di Garibaldi e la sua rivoluzione contro i borboni era stato il segnale della rivoluzione contro tutte le ingiustizie. La rivoluzione avrebbe portato giustizia? Allora doveva significare “terra”, da togliere ai padroni per darla a chi su quelle zolle lasciava l’anima e il sangue. Queste rivolte, Alcara come Bronte, saranno brutalmente represse con speciale ferocia dagli stessi garibaldini nel cui nome i ribelli avevano agito.
Il barone, testimone diretto degli accadimenti d’Alcara, si sente in dovere di inviare al procuratore generale, che adesso è il liberale Interdonato, una memoria a favore dei rivoltosi «quale mezzo conoscitivo indipendente»: è una netta scelta di campo a favore di quegli uomini che sì, scrive il barone, è vero che agirono con violenza, «chi può negarlo?, ma spinti da più gravi violenze d’altri, secolari, martirii soprusi angherie inganni».
È il momento in cui il Mandralisca getta il cuore oltre l’ostacolo. Cosa può fare un liberale illuminato? Potrebbe agire «Per l’Italia e i Savoja? Con Garibaldi?», si chiede il barone. Ma come potrebbe farlo dopo quello che ha visto sulle montagne dei Nebrodi? Mandralisca, dopo i moti di Cefalù, ha assistito alla fucilazione dei compagni e all’arresto di madri e sorelle, è stato in carcere; non può essere sospettato di diserzione o di indifferenza, eppure…: «Oggi mi dico: cos’è questa fede, quest’ideale?» a cui abbiamo dedicato la nostra vita? Questo ideale non è altro che «un’astrattezza, una distrazione, una vaghezza, un fiore incorporale, un ornamento, un ricciolo di vento […] Una lumaca». Non è una dichiarazione di resa, ma una sfida inedita, un rilancio. È indispensabile che gli “altri” in quanto “altri”, con la loro autonoma soggettività, possano raccontare la loro storia: perché sino ad oggi, spiega il Mandralisca, la storia è stata un’ “impostura”, anche quando è stata scritta da «noi cosiddetti illuminati». Gli «altri», scrive nella lettera al procuratore, non possiedono «il mezzo del narrare, a voce o con la penna». Ma, ecco il definitivo salto in avanti, il problema non è solo la scrittura, il vero problema è «il cifrario dell’essere, del sentire e risentire di tutta questa gente». Questa è la suprema consapevolezza: «Noi non possediamo la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi».