“Black lives matter”: tutto il mondo ha sentito l’urlo di rabbia degli afroamericani, anche se le proteste degli ultimi anni non sono bastate a mettere fine alle uccisioni ingiustificate da parte degli agenti di polizia. “Black is beautiful” era invece il grido d’orgoglio da cui partì la presa di coscienza dell’identità nera schiacciata dal potere politico, culturale e anche estetico dei bianchi.
Oggi però negli Usa un altro gruppo combatte per la propria identità, ed è una battaglia ancora più complicata. Perché dietro l’etichetta sotto cui, volente o nolente, viene raggruppato chi oggi si agita c’è un gruppo tra i più eterogenei: indiani d’America e d’Asia, latinoamericani, e tutti gli immigrati che hanno radici nel mondo arabo-islamico. Non importa che queste persone non abbiano tra loro nessun legame: se non sei bianco né nero, negli Stati Uniti di oggi sei “brown”.
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Anzi, “Brown”: almeno dateci il diritto alla lettera maiuscola, ha argomentato pochi giorni fa Hugo Balta, presidente della National Association of Hispanic Journalists. Nel 2020, scrive Balta, dopo le proteste seguite all’uccisione di George Floyd, «l’Associated Press ha deciso di cominciare a usare la maiuscola per la parola “Black” quando è usata in un contesto che riguarda razza e cultura. Ma non ha dato lo stesso riconoscimento alla parola “Brown”». Eppure una delle caratteristiche di quelle proteste è stato proprio il fatto che, per la prima volta, accanto ai neri e ai progressisti bianchi siano scesi in piazza anche i latini e gruppi di migranti di ogni provenienza.
L’AP si è giustificata dicendo che «il termine “brown” è troppo ampio e impreciso, è chiaro solo se è parte di una citazione di un discorso». Balta non ci sta: «Sostenere che “Brown” è una generalizzazione significa ignorare le lotte di un gruppo di perone in un Paese che storicamente non riconosce la loro esistenza». È vero, i “Brown people” «vengono da molti paesi, culture e gruppi etnici, e dovrebbero prima di tutto essere identificati con quanto li rende unici. Ma negli Stati Uniti sono discriminati come se fossero un unico gruppo, e per questo meritano che sia loro riconosciuta la dignità di una B maiuscola».
Balta conclude con una frase che sembra rimandare alle recenti polemiche italiane contro l’uso dello schwa come segno di inclusione per chi non si riconosce né nel maschile né nel femminile: «Non sminuite l’uso della maiuscola come un “cambiamento puramente cosmetico” o un contentino. Un piccolo cambiamento che attira l’attenzione necessaria sui soprusi sopportati da comunità che lottano per essere viste, ascoltate e comprese, può avere un effetto potente».
Tutto questo può sembrare assurdo a chi guarda dall’Italia, dove la parola “razza” sembra un concetto così impresentabile da dover essere di cancellata anche dall’articolo della Costituzione che ne nega ogni importanza. E sembra paradossale che una deputata repubblicana che in un discorso di fine hanno ha parlato dell’amore per gli Stati Uniti che unisce «white people, Black people, brown people, yellow people» sia stata accusata di razzismo. “Brown people” è ammesso, “yellow” invece no, rimanda a definizioni dichiaratamente razziste sul “pericolo giallo” che vanno dalla Seconda guerra mondiale alla fine del secolo scorso: ricordate “Sol levante” di Michael Crichton, scritto nel 1992, quando la principale paura collettiva degli Usa era l’invasione culturale ed economica da parte del Giappone?
Il cuore del problema, in realtà, è economico. L’identificazione con un gruppo razziale è uno dei pilastri dei censimenti negli Stati Uniti, e sul censimento si basa la distribuzione dei fondi pubblici, Lo ha spiegato tempo fa sul Guardian Moustafa Bayoumi, scrittore americano di origine egiziana che insegna inglese al Brooklin College. Il fisco americano, che riconosce cinque “razze” ufficiali, non riconosce i “brown”, che finiscono nella casella “some other race”, ormai il terzo gruppo più comune tra gli americani. Una buona notizia? No, spiega Bayoumi: «I distretti politici sono disegnati sulla base del censimento. Tutto, dall'assistenza sanitaria alla costruzione di autostrade, utilizza i suoi dati. L'accuratezza del censimento è necessaria per la ripartizione di oltre 800 miliardi di dollari di finanziamenti federali annuali, compresi i programmi di mensa scolastica e l’assistenza sanitaria pubblica. I dati del censimento sono fondamentali per progettare programmi a livello di comunità e far rispettare la protezione dei diritti civili». Sarebbe meglio, scrive Bayoumi, accettare la nuova nuova categoria di "Mediorientale o nordafricano" (Mena), che includerebbe persone provenienti da Turchia, Iran e Israele. Una proposta che stava per diventare realtà prima che l’amministrazione Trump bloccasse tutto.
Non tutti gli americani di origine arabo-islamica, però, si riconoscono come “brown”. Prendiamo ad esempio Layla F. Saad, editorialista del New York Times e autrice di “Me and white supremacy”, un manuale che insegna a riconoscere il razzismo inconscio: nato come ebook gratuito su Iinstagram nel 2018, è stato scaricato 100mila volte in sei mesi. Lei si definisce «una donna africana orientale, araba, britannica, nera, musulmana che è nata e cresciuta in Occidente ma vive in Medio Oriente».
Chissà quale etichetta sceglierebbe per sé Ahmed Naji, scrittore egiziano rifugiato negli Stati Uniti, che ha affidato la sua ribellione alla necessità di accettare un’etichetta a un articolo pubblicato prima in arabo, su Aljumhuriya poi in inglese, su The Markaz Review. La sua rabbia, rilanciata dal sito cuturale Arablit, è resa ancora più bruciante dalla convinzione di essere comunque un privilegiato, rispetto a chi è rimasto in Egitto a lottare con un regime che mette in pericolo chiunque senta di avere il diritto di pensare e scrivere liberamente. L’irritazione è evidente fin dal titolo: “Taming the Immigrant: Musings of a Writer in Exile”, che rimanda alla “Bisbetica domata” scespiriana per denunciare la necessità per gli immigrati di accettare di farsi “addomesticare” dalla società americana.
Si parte da soli ma appena arrivati ci si trova a far parte di un gruppo, racconta Naji: «Ho lasciato l'Egitto da solo. Uno scrittore senza affiliazione ad alcuna organizzazione politica, che si è allontanato dal suo gruppo religioso e nazionale. Tuttavia, una volta arrivato in America, questo ha perso ogni significato, perché non appena mi sono presentato ai cancelli del terminal non solo ho ricevuto il timbro ufficiale del governo, ma ho lasciato l'aeroporto marchiato con un'orrenda serie di etichette che non ho contribuito a decidere e non ho potuto comprendere».
L’etichetta principale è quel colore, “brown”. «Durante i miei primi mesi nel paese qualcuno mi fece una domanda in cui si riferiva a me come un “brown writer” - un termine che all'epoca non conoscevo - e solo dopo aver chiesto spiegazioni durante le quali quella persona balbettava cercando come rispondermi, ho finalmente capito che era un termine rivolto a scrittori che non appartenevano alla razza bianca o nera».
Lo stupore iniziale lascia presto il posto alla rassegnazione: «Del resto, chi sei? Neghi di essere un “brown writer”? Neghi le tue origini etniche? E perché critichi gli arabi americani? Ti vergogni della tua tribù? Quanto sei ingrato. E comunque, se non ti identifichi come arabo, perché parlare per loro? Certo, lo fai perché qui la libertà di espressione è garantita a tutti». La sensazione di disagio diventa un’ossessione kafkiana: se non ti riconosci come “brown” e scrivi di temi arabi, «potresti essere accusato di appropriazione culturale. E che dire dei documenti di soggiorno e di un permesso di lavoro? Non li avrai finché non dimostrerai di esserti effettivamente assimilato, quando ammetterai di essere un “brown writer”, un arabo, un musulmano, e sceglierai in quale pronome riconoscerti, she/them/he/her». Una recita: niente di più facile, apparentemente per chi «è nato e cresciuto sotto rigide istituzioni che si aspettavano una cieca obbedienza». Naji non trattiene la rabbia: «Ascoltatemi, figli di puttana: ho imparato l’arte dell’inganno mentre succhiavo il latte dal seno della mia mamma, niente è più semplice per me che passare con l’inganno attraverso le vostre disposizioni e condizioni».
Sottomettersi a quell’etichetta del resto èassolutamente essenziale per uno scrittore che non vive dei libri che vende, ma ha bisogno di collaborazioni e borse di studio. “Black and Brown” è la comune la definizione di molte scholarship finanziate da enti ed aziende benefiche: se non sei “black” sei “brown”, ma se non accetti di definirti “black” o “brown” non puoi partecipare al bando. «Alla fine, ho iniziato a presentarmi come un “brown writer”», prosegue Naji, «a discutere del collettivo dei Brown Writers e a condire i miei discorsi con le etichette esatte che mi ero rifiutato di ricevere al mio arrivo nel paese. Negli Stati Uniti, alhamdulilah, sono diventato uno scrittore brown, musulmano, arabo, arabo-americano, nordafricano e occasionalmente africano. E, grazie al Signore, continuo ad accumulare titoli e identità perché sono le chiavi che permettono borse di studio, lavoro, istruzione e vita».
Il risultato è un senso di straniamento che aggrava la condizione del “deraciné”: cambiare Stato, continente, lingua, non basta a sentirsi liberi né a liberarsi dalla paura. «Eccolo, l'inganno, ancora una volta, solo che questa volta sembra affrontare un nuovo tipo di paura». Per affrontare la situazione, la società americana mette a disposizione ogni genere di “strizzacervelli”, ma Naji non si fida: «La psichiatria non si è sviluppata per occuparsi di immigrati ed espatriati, ed è quindi incapace di colmare il divario tra gli immigrati e le nuove società in cui si trovano».
Gli incontri con i professionisti della gestione psicologica del disagio sono tragicomici, e culminano con il terapeuta che consiglia di leggere Paulo Coelho per affrontare un evidente “disturbo postraumatico da stress”: quel terapeuta non capisce che «l’immigrato esiste in una condizione di trauma perpetuo», taglia corto Naji. L’etichetta di “brown” che gli viene appiccicata addosso non è nulla rispetto a quello che ha sofferto in Egitto e a quello che deve sopportare oggi. È solo un fuscello in più. Eppure, leggendo “The taming of the immigrant” viene il sospetto che potrebbe essere quello che gli inglesi chiamano “the final straw”, la goccia che fa traboccare il vaso.