Due ragazzi di estrazione sociale diversa, il dramma narrato con equilibrio da Attal. Dove l’accusato è il figlio del regista

Missione impossibile: raccontare un caso di stupro senza prender parte né per la vittima né per l’accusato, anzi dedicando loro due parti distinte del film. Per esplorare i rispettivi punti di vista. Ma anche «perché lo spettatore abbia il tempo di affezionarsi a loro. Volevo sapere da dove venivano, chi erano, come entrambi avevano passato la serata che precede il dramma, perché lei riteneva che lui l’avesse stuprata e lui credeva che lei fosse stata consenziente», spiega il regista Yvan Attal.

Dettaglio non secondario: l’accusato è il figlio del regista, Ben Attal; sua madre è interpretata dalla sua vera madre, Charlotte Gainsbourg; mentre l’intero caso poggia sulla differenza di classe, educazione e mentalità che separa i protagonisti.

Lei, Mila (Suzanne Jouannet), liceale timida e malinconica, famiglia come tante, cresciuta nell’ortodossia religiosa da una madre molto praticante; lui invece, Alex, studente modello di ritorno a Parigi da Stanford, colto, brillante, sensibile, disinibito, figlio di genitori separati ma molto in vista, padre donnaiolo e celebre giornalista tv (Pierre Arditi), madre intellettuale e star del femminismo (Gainsbourg). Nonché, a rendere tutto ancora più scivoloso, nuova compagna del padre di Mila, professore di letteratura (Mathieu Kassovitz).

Complicato da questo retroterra familiare (vite e carriere dei genitori di lui sono evocate con tratto veloce e un poco insistito), “L’accusa” potrebbe scadere nella sociologia facile o nella condanna sommaria. Ma Attal, che prima di adattare il romanzo di Karine Tuil “Le cose umane” (La nave di Teseo) ha condotto un’accurata inchiesta sul campo, schiva il pericolo concentrandosi soprattutto sui due ragazzi. Con un’attenzione minuta ai gesti, i silenzi, le aspettative, le contraddizioni, insomma le personalità dell’una e dell’altro, che è il primo pregio di un film sempre sul filo del rasoio. E davvero coraggioso nel portarci senza parere da un caso particolare come questo a un problema generale: cosa significa stupro, oggi, sul piano umano ancor prima che su quello giudiziario (anche se buona parte del film è dedicata al processo)? Che tipo di cultura lo alimenta, lo giustifica, talvolta lo imbelletta o lo camuffa? Domande che Attal ha il merito di porre senza alzare la voce, ma con chiarezza. E senza mai dimenticare la pietas.

“L’accusa (Les choses humaines)”
di Yvan Attal
Francia, 138’

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