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Cultura
marzo, 2022

Gino Strada, l’uomo che odiava la guerra: «Curare le persone è un dovere, prima ancora che un diritto»

Gli studi di medicina, l’impegno sul campo, l’idea di Emergency. Nel libro “Una persona alla volta” il racconto in prima persona del chirurgo pacifista scomparso lo scorso anno

Questo articolo è pubblicato senza firma come segno di protesta dei giornalisti dell’Espresso per la cessione della testata da parte del gruppo Gedi.
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“Una persona alla volta” (Feltrinelli) arriva insieme alla guerra, e a pochi credo questo possa sembrare un caso, forse chi conosceva bene Gino Strada avrà pensato a uno dei suoi formidabili colpi sarcastici, lui uomo straripante di vita. È almeno dal 1994, l’anno della fondazione di Emergency, da quelle indimenticabili trasmissioni del Maurizio Costanzo Show dalle quali Gino Strada fece partire la campagna contro le mine antiuomo mostrando in tv fotografie fino ad allora ritenute oscene e inguardabili – donne e ragazzi senza braccia, senza gambe, senza occhi (campagna che portò all’abolizione delle mine con la legge 374 del 1997) – che siamo abituati ad ascoltare la sua voce allo scoppio di ogni conflitto, e la aspettiamo come possibilità di tornare a nutrire un po’ di fiducia nei nostri simili, e quindi in noi stessi. Ora che Gino non c’è più, portato via la scorsa estate da una malattia cardiaca (lui che da giovane e brillante studente, che arrivava da uno dei quartieri più popolari di Sesto San Giovanni, si era specializzato a Pittsburgh e Stanford proprio nel trapianto di cuore) c’è il suo libro, che assomiglia a un’autobiografia, non fosse che è lo stesso Gino a scrivere che «non (è) un’autobiografia, un genere che proprio non fa per me, ma quello che ho capito guardando il mondo dopo tutti questi anni in giro».

 

Non sarà un’autobiografia ma servono le sue parole, se scoppia l’ennesima guerra (violentissima e sporca come ogni guerra, una guerra antica, con attacchi via terra senza droni, piazza per piazza, via per via, quartiere per quartiere dentro un Paese di frontiera tra due mondi e due ère storiche), e per di più dopo due anni di pandemia. Parrebbe un copione dell’orrore: una pandemia, la crisi energetica, la minaccia della bomba a idrogeno, una guerra che rischia di divenire mondiale. E le sue sono parole che curano, perché serve poter pensare che anche se c’è la guerra, c’è qualcuno che fa qualcosa contro la guerra. E Gino Strada era soprattutto uno che faceva. Per lui, fin da bambino appassionato di scienza e di uomini, la medicina era lo strumento di realizzazione del diritto più fondamentale, quello alla vita. In questo senso la medicina era concretamente rivoluzionaria, come gli aveva insegnato Maccacaro. «Emergency non è la soluzione», scrive: «Ma intanto quel gesto di cura serve alla persona che ci è capitato di incontrare, aiuta a risolvere il suo problema. Praticare rapporti di solidarietà è il contrario della logica di guerra ed è indispensabile per costruire una società veramente civile. Emergency è soprattutto una pratica di medicina, che cura chi ne ha bisogno. E lo fa semplicemente perché c’è qualcuno che ne ha bisogno. Curare le persone è un dovere nostro, prima ancora che un diritto».

NZO

Prima che sulla questione dei diritti, Gino Strada pensava ai suoi doveri. Su questi fondava i primi. Credo di non sbagliare se scrivo che questo metodo gli derivava da un lato dalla dignità di una famiglia operaia e antifascista (Mario, suo padre, lavorò per una vita alla Breda di Sesto San Giovanni, gli zii Gino e Gianna alla Falck; tute blu, come mi dice Cecilia, la figlia di Gino, portate con la più grande dignità), dall’altro proprio dalla “Stalingrado d’Italia”: «Le grandi industrie, gli operai, il partito, il passato partigiano. A Sesto si faceva politica per forza (…), oltre ai fumi delle acciaierie respiravamo etica del lavoro, responsabilità, senso di comunità».

 

Perché l’uomo si possa dire davvero uomo, per Gino Strada è necessario che la cura sia un diritto universale. «Se è possibile essere curati a Milano perché non dovrebbe esserlo a Kabul?», si chiede. È così, semplicemente per questo, e poi perché «senza condizioni è l’unica condizione» e «il lavoro di medici non deve essere condizionato da altro che dai bisogni dei malati», che Gino una sera di fine 1993 decide di fondare Emergency, ne parla in cucina a Teresa, la sua prima moglie (poi morta nel 2009) e Cecilia, che gli danno del pazzo, dopo che aveva lavorato al Policlinico e all’ospedale di Rho, dopo che aveva lasciato Milano per andare a fare il chirurgo di guerra con la Croce rossa internazionale. Tutte le persone che lo conoscevano bene, i suoi migliori amici, i suoi familiari, mi dicono che uno dei più grandi talenti di Gino era la capacità di arrivare all’osso delle questioni, la capacità di sfrondare gli eventi per scoprirne l’essenza. Gino credeva che l’unico modo per dare una possibilità alla pace fosse garantire più diritti per tutti, e poiché il diritto alla cura è quello fondamentale, dal momento che decide della vita e della morte, allora è di questo che occorre occuparsi.

A chi gli chiedeva se era pacifista, rispondeva che era più semplicemente contro la guerra. A chi gli dava dell’utopista diceva che «l’utopia è solo qualcosa che ancora non c’è». E ancora che ciò che gli forniva l’energia necessaria per intraprendere opere complessissime per le quali era necessario il lavoro di anni e di una moltitudine di persone come aprire ospedali (a volte «scandalosamente belli») e portare cure in Afghanistan, Somalia, Sudan, Ruanda, Sierra Leone, Perù era «la difesa della dignità dell’individuo contro la sopraffazione del potere», come scrive Simonetta Gola nella postfazione. Questo gli dava la spinta: la questione della dignità. A guardarle così sembrano forse affermazioni che provengono da un’altra èra o dal futuro dei più giovani che lottano per salvare il pianeta. Chi pensa siano solo parole deve tenere a mente che Gino Strada preferiva agire. In 27 anni ha curato 11 milioni di persone, ha eseguito di persona 30mila interventi. E anche quando parlava e prendeva posizione non era mai uomo di compromessi.

 

Questo è l’aspetto che più di tutti mi ha sempre impressionato dell’impresa di Gino Strada, la sua caparbietà nel voler essere giusto (nel senso etimologico di diritto, quindi dritto, lo stesso senso operaio del fare, del prendersi cura del lavoro e del mondo con misura e la testa alta) e il fatto di esserci riuscito davvero. Nel Paese più corrotto tra i più avanzati, dove l’evasione fiscale è alle stelle e la fiducia nello Stato ai minimi, in un Paese che ospita quattro mafie si cresce sapendo che il valore individuale, la passione, la costanza, il merito non contano niente se paragonati alla rete di potere nella quale si è o meno inscritti, figuriamoci la possibilità di compiere imprese folli che vadano contro strutture costituite. I suoi migliori amici, sua moglie Simonetta, Cecilia, tutti mi dicono la stessa cosa: non ci sono altri modi per agire che quello di non scendere a compromessi e tirare dritto per la propria strada. Bisogna essere pronti a rimanere soli. Sarebbero tanti gli esempi da fare a questo proposito, sulla vita di Gino (a partire dal suo professore a Medicina che lo prese in simpatia «perché non sei un leccaculo»), e alcuni sono contenuti in questo libro, che raccontando la storia dell’utopia realizzata dell’uomo che ha sconfitto la guerra ci regala ossigeno. Grazie a Simonetta per aver spinto Gino «a tirare le fila» di quello che ha «visto e vissuto».

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