Pubblicità
Cultura
agosto, 2022

Abel Ferrara: «Siamo a un passo dall’Olocausto nucleare ma nessuno parla di pace»

Sarà a Venezia, per l’anteprima del suo atteso film su Padre Pio. «La spiritualità è ciò che conta di più», dice il regista. Che punta lo sguardo su Ucraina e “fucking” States

Il 19 luglio ha compiuto settant’anni Abel Ferrara, il regista più provocatorio, controverso e sorprendente di Hollywood, dichiaratamente allergico alle dinamiche dello star system e del cinema commerciale, più vicino all’arte cinematografica artigiana europea. Chi scrive ha avuto modo di intervistarlo più volte, riscontrandone la costante abitudine a dire la sua senza filtri, senza badare al politicamente corretto e senza tralasciare nemmeno un “fucking” come intercalare. A Siracusa, all’Ortigia Film Festival, oltre a presentare il documentario “Alive in France” sul tour francese con la sua rock band Statale 66, ha riproiettato il suo film “Pasolini”, come omaggio al centenario del grande intellettuale.

Partiamo da Pasolini: perché secondo lei è ancora tanto attuale?
«Per la sua intelligenza. Per il modo in cui ha saputo esprimere se stesso, per gli scritti che ha lasciato, dai romanzi alle poesie, dagli articoli ai film. Intellettuali e artisti come lui vivono per sempre. Ogni volta che mi chiedono: «Perché proprio Pasolini?», io rispondo: «Perché no?». Da regista non c’è nulla di più interessante di un uomo e di uno scrittore come lui».

Ha detto più volte che il suo film è soprattutto un atto di amore.
«Sono un grande estimatore di Pasolini da sempre, da quando ero ragazzo: lo leggo e studio da 50 anni, lo considero il mio maestro e invidio i giovani che iniziano a studiarlo e non sanno che stanno per scoprire oro e diamanti».

Pasolini scrisse «Odio il potere» e parlava dei politici come delle «maschere comiche».
«Odiava soprattutto l’oppressione conseguente al potere. La divisione tra padroni e schiavi che il potere determina. E aveva ragione, è così che il mondo si configura, basti guardare che cosa sta capitando oggi: siamo a un passo dall’olocausto nucleare e sull’orlo di una nuova guerra mondiale. Non sono anni poi così diversi da quelli in cui scriveva Pasolini, anche quelli tempi di Olocausto e di guerra mondiale».

Scrisse anche che l’Italia era un Paese “ridicolo”. Concorda?
«Non mi sento di dare giudizi politici su un Paese di cui sono ospite, non parlo neanche la vostra lingua, posso però dirle ciò che penso sul Paese in cui sono nato e cresciuto, i fucking States».

Vuole partire dal rovesciamento della sentenza che garantiva l’aborto a livello federale?
«Personalmente non sono a favore dell’aborto, ma sono convinto che ogni donna debba avere la libertà di decidere liberamente sul proprio corpo. Invece questi sei tizi della Corte suprema hanno deciso diversamente, in nome della loro religione: senza parole».

Poco fa parlava di minaccia nucleare e di terza guerra mondiale...
«Mi ha molto colpito quanto accaduto in Ucraina. In America sono convinti tutti che la guerra sia l’unica opzione possibile, nessuno sta parlando veramente di pace. A parte Papa Francesco e il Dalai Lama. Mi sorprende che nessun governo si mostri concretamente interessato alla pace, ma solo a prendere le parti dell’uno o dell’altro».

E da che cosa deriva?
«Dal vuoto di compassione e di spiritualità. Non so spiegarmelo bene, come tuttora non mi spiego l’Olocausto, come mai il passato non ci ha insegnato niente e siamo vicinissimi a una minaccia nucleare».

La spaventa?
«Di certo non lo trovo “cool”. Ma ho 70 anni ormai, ho girato tutto il mondo e parlato con moltissima gente, sono pochissime le persone che pensano davvero a uccidere l’altro, la maggior parte della gente non è così guerrafondaia».

Un bilancio di questi 70 anni?
«Sono grato alla vita e grato per essere vivo, sobrio – non scherzo – e di vivere a Roma, che mi ispira ogni giorno».

New York non le manca?
«Appena mi manca ci torno, ma preferisco Roma. L’ho vissuta anche nel lockdown, ho girato “Zeros and Ones”. Fortunatamente dalla pandemia sono uscito indenne, grazie ai tre vaccini fatti».

Come ha impattato la pandemia sulla sua vita?
«Nessuno se lo aspettava, nessuno sapeva cosa fare, è stato un incubo. Ed è diventato una realtà che può sempre verificarsi. L’idea che qualche criminale si metta a fabbricare un virus capace di annientare il mondo fa schifo, ma dobbiamo conviverci. Non mi riferisco solo alla Cina, da cui il virus è partito, ogni Paese sta sviluppando armi biologiche e batteriologiche. Il problema sta nel fatto che le realizzino: una volta realizzata ogni arma è utilizzabile. Compresa quella nucleare. La realtà che viviamo non è bella, anzi è molto preoccupante, ma dobbiamo guardarla dritto negli occhi, non voltarci dall’altra parte e far finta che non esista».

Qual è il suo rimedio contro le preoccupazioni?
«Ogni tanto ripenso a ciò che diceva John Kennedy: non chiederti cosa il tuo Paese può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese. Tolto il lato nazionalistico del messaggio, è qualcosa che abbiamo appreso anche dalle religioni, da Cristo, da Buddha. La nostra responsabilità è avere compassione dell’altro: cura e amore sono le uniche cose che contano, le sole che portano a una vita vera. Oggi alla spiritualità dedico ogni mio respiro».

A proposito, a che punto è il suo film su Padre Pio con Shia LaBeouf?
«È pronto, il “capo” dei cappuccini in Italia ha detto che è un capolavoro. Lo porterò alle Giornate degli Autori a Venezia, sarà proiettato in anteprima il 2 settembre alle 17, lo scriva per favore, me lo prometta. Ci tengo che vengano tutti a vederlo. Porterò la mia band a Venezia e suoneremo gratis per tutti in quella che sarà la festa del secolo».

Dirigere LaBeouf è difficile come molti dicono?
«Macché, è bravissimo e guai a chi me lo tocca, è il mio ragazzo. Nel film dà una grande prova di attore».

Ha una rara capacità a scegliere gli attori giusti per i suoi film, penso a Willem Dafoe per “Pasolini”.
«La verità è che io non scelgo nessuno, il cinema si fa in squadra. Con la produzione, il team creativo, la troupe... Per questo mi è sempre piaciuto, e ancora oggi mi fa felice, questo lavoro».

Specie in Italia.
«È casa. Vivere a Roma è un miracolo per gli occhi. Sono cresciuto nel Bronx, dove negli anni Cinquanta la lingua era il napoletano, oggi sono abituato a capire il romano, ma ancora non lo parlo. Amo l’attenzione che date all’arte, al cinema. In America ho dovuto lottare per fare capire cosa significhi essere un artista, in Europa  avete una tradizione di cineasti solida. In Italia mi chiamano “maestro” per i film che ho fatto, negli States di un regista contano solo i soldi incassati al botteghino.

Dopo il film su Padre Pio che farà?
«Andrò in Ucraina per vedere cosa sta accadendo e lo racconterò».

L'edicola

La pace al ribasso può segnare la fine dell'Europa

Esclusa dai negoziati, per contare deve essere davvero un’Unione di Stati con una sola voce

Pubblicità