La vita mi ha messo in mano una torcia e mi ha detto: “Siediti e scrivi!”. Io ho obbedito». Kader Abdolah, iraniano rifugiato in Olanda dagli anni Novanta, e autore di romanzi indimenticabili, primo fra tutti “Il viaggio delle bottiglie vuote” (Iperborea), ha consegnato alla letteratura la necessità di colmare con la scrittura lo straniamento e il silenzio dei senza patria. L’imperativo di scrivere riecheggia nelle parole di Espérance Hakuzwimana e Andreea Simionel, 26 anni entrambe, tutte e due residenti a Torino, storie diverse alle spalle, ma percorsi emotivi che si incrociano di continuo. A partire dalla scrittura, appunto: che scandisce un percorso di consapevolezza sulla loro identità complessa. Hakuwzimana l’ha raccontato in “E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana” (People), ed è ora in libreria con il romanzo “Tutta intera” (Einaudi). Simionel rievoca la sua storia di migrazione, con l’Italia come luogo d’approdo fin troppo mitizzato, nel libro “Male a Est” (appena pubblicato dalle edizioni Italo Svevo). Le due narratrici saranno tra le protagoniste di Pordenonelegge, festival del libro dal 14 al 18 settembre, dialogando a distanza su temi come lingua, razzismi, voci nuove in una società che cambia. Noi le abbiamo messe insieme.
Illustrazione di Andrea Calisi
Cominciamo dall’infanzia. Se ripensate a quando eravate bambine, c’è un ricordo che vi racconta meglio?
Andreea Simionel: «Mi viene in mente un’intervista di Stephen King, che alla domanda “hai avuto una brutta infanzia?”, visti i libri ad alta tensione che scrive, risponde: “No, ho avuto un’infanzia bellissima”. Nonostante le difficoltà di cui tante volte parlo, ho avuto un’infanzia serena, scuola, giochi, amici. Sono nata in Romania, a Botoşani, e sono arrivata in Italia a undici anni, un’età privilegiata, in cui puoi ancora imparare perfettamente un’altra lingua. Ero felice, è dopo che è avvenuto il rovesciamento emotivo».
Cosa è successo?
A. S.: «L’ho capito solo scrivendo. Il mio romanzo parla di quella bambina che arriva in Italia. Non fuggivamo dalla guerra, apparentemente non c’era alcunché di traumatico. Ma se ripenso al bullismo dei bambini, a quando non sai il significato di una parola e diventi oggetto di scherno, capisco come la crepa si è formata in me. Ricordo bene quando un gruppetto di ragazzini si avvicinò per domandarmi: “Lo sai cosa vuol dire cazzo?”. Io sento ancora la paura di rispondere: perché se avessi detto di sì avrebbero riso, se avessi detto di no, idem. Il trauma ha portato a una reazione: a espellere da me tutto ciò che ero, per cercare di integrarmi. A perdere le radici, a nasconderle. Quando io e mia sorella parlavamo non nominavamo mai la Romania: la chiamavamo Ground X, come se non esistesse. Puoi sperimentare il male, il bullismo, la discriminazione. Ma la ferita più grande è quando rifiuti e rinneghi ciò che sei per paura. Ritrovandoti anni dopo con un enorme buco dentro e con la necessità di ricucire i legami recisi: il carico emotivo resta invisibile. E fa male».
Espérance Hakuwzimana: «È difficile parlare della mia infanzia, non c’è stata. Sono cresciuta in provincia di Brescia, tutti conoscevano la mia storia perché sono arrivata dal Ruanda nel 1994 con altri 40 bambini, sopravvissuti al genocidio: non era una cosa che poteva passare inosservata. Ma il fatto che la mia storia fosse la storia di un’intera comunità, che la raccontava, la manipolava, se ne sentiva parte, ha reso la scoperta della vera me davvero complicata. Nella mia famiglia adottiva non potevo dire neppure di essere una persona nera, e questo ha ostacolato la consapevolezza della mia identità».
Chiamare le cose col nome, anziché negarle. Riempire la propria identità con le origini che mancavano. Parla di questo?
E. H.: «Sì, me ne stavo in disparte e riversavo tutto nella scrittura, ho cominciato piccolissima. In un contesto dove la maggioranza era bianca, era il mio modo di adattarmi. Non alzavo mai la mano, tendevo a subire, a un certo punto è diventato intollerabile. Allora ho cominciato a riflettere su quanto ciò fosse legato all’essere nera. Ma il mondo fuori non mi dava riscontri. Io dicevo: voglio scrivere storie come “Matilde” di Roald Dahl però con la protagonista nera, e in biblioteca non trovavo nulla. Per liberarmi da queste gabbie sono dovuta uscire dalla mia famiglia adottiva, e cercare di “essere vista” nella mia vera identità. Che non è una sola: sono ruandese, sono una persona afrodiscendente, sono una ragazza adottata, sono una donna nera, cose diverse anche se nella stessa persona. Quando ho capito che dovevo raccontare anche se in giro non c’erano voci simili alla mia, ho intrapreso un percorso faticoso. Sono felice che oggi l’editoria dia spazio a voci diverse. Ma molto deve ancora essere fatto».
C’è stato un momento in cui vi siete sentite in pericolo per il fatto di provenire da mondi diversi?
A. S.: «Io me la sono creata la paura. Se leggevo articoli che parlavano male dei rumeni, temevo sempre che qualcuno se la prendesse con me. Chiedevo scusa per la volgarità di quelli che facevano gesti violenti. Dicevo io per prima di essere rumena, quasi a voler mettere le mani avanti».
E. H.: «Nell’estate del 2018 mi sono ritrovata a scrivere una lettera aperta. Per la prima volta mi sono resa conto di essere cresciuta con una paura sottopelle, mentre tutti la consideravano autosuggestione. Ho dovuto fare i conti, ad esempio, con il modo in cui il genocidio è interpretato dal pensiero occidentale. E quando accadevano episodi di violenza che coinvolgevano “l’uomo nero” - terrificante espressione - io sentivo una specie di senso di colpa. L’unico modo per sconfiggere questa paura è stato quello di tirarla fuori e confrontarmi con altri».
Scrivere è stata la vostra terapia. C’è qualcuno che vi ha trasmesso il gusto del raccontare?
E. H.:«Per me scrivere è sempre stato un modo per fuggire. Ora che non devo più scappare, la difficoltà che sento è nel trasformare la mia passione in un’espressione più libera e professionale. Mi viene in mente mia madre adottiva che mi metteva libri sotto il cuscino. Voleva che leggessi, ma non lo facevamo assieme».
A. S.: Mia madre è stata una figura decisiva. Anche se non in senso del tutto positivo. Fino a 11 anni sono cresciuta in un ambiente autoritario, sia a scuola che a casa. E io la cultura rumena dell’obbedienza ce l’ho nel sangue: mia madre mi diceva di leggere, io lo facevo. Dovevo leggere moltissimi libri».
Dall’imposizione poteva nascere un grande disamore.
A. S.: «Però io vedevo lei felice, innamorata dei suoi libri, e sognavo di poterli leggere anch’io. Hemingway, per esempio».
La scrittura come strada per acquistare consapevolezza e sanare ferite. Quando è diventata altro?
E.H.: «Io ho frequentato la scuola Holden. Ma per arrivarci ho fatto un giro lunghissimo. Sono cresciuta in un contesto con il culto del lavoro pratico, dove qualunque gesto creativo era considerato un passatempo della domenica. Quindi potevo scrivere, ma prima di tutto imparare a fare qualcosa e trovare un lavoro. Volevo fare il liceo classico e i miei mi hanno iscritto all’istituto tecnico aziendale. Ho girato per università, ho provato diversi mestieri. Prima di arrivare a Torino, fare il test di ammissione di nascosto da tutti, superarlo e frequentare la scuola. Non mi vedevo in nessun altro posto se non a scrivere».
A. S.: «L’ultimo anno di liceo arrivò una casa editrice per realizzare un’antologia di racconti. Io proposi una storia su una madre migrante, e piacque molto. Mi ricordo quando al liceo mi chiesero: cosa vuoi fare da grande? Di fronte alla mia risposta - la scrittrice - l’insegnante di italiano mi raggelò: sì, questo è un sogno, ma cosa vuoi fare veramente? Leggevo tantissimo, scrivevo racconti come una pazza, partecipavo a concorsi. Ho frequentato la Bottega di narrazione. E lì mi sono resa conto con dolore che non possedevo la lingua in cui scrivere. Usavo la parola “baba”, che in rumeno identifica un particolare tipo di vecchia, quella col fazzoletto in testa e la gonna lunga, ma in italiano non significava nulla. Dicevo che le pecore “belululavano”, perché in rumeno il verbo per dire il verso delle pecore prende l’onomatopea e la porta avanti. Non avevo una lingua, dovevo trovarla. Ho lavorato molto su questo: è stata una lotta con una bestia selvaggia».
E. H.: «Sono affascinata da chi ha la capacità di passare da una lingua all’altra, perché parlare più lingue è un modo per avere pensieri nuovi. Io ho avuto una vera ossessione per le parole. Un’estate mi ero messa in testa di imparare tutte le parole contenute nello Zanichelli. Volevo averne il controllo assoluto, cosa che non puoi raggiungere mai, non foss’altro che perché la lingua continua a cambiare. Ma capire che la lingua ti dà il potere di creare qualsiasi cosa, mi ha mandato fuori di testa. Quel senso di potere che sento quando rileggo una frase bella, in cui tutto si incastra alla perfezione, mi dà una gioia che non provo in nessun altro modo».
Siamo alla vigilia di elezioni. Che rapporto avete con la politica? Pensate che i programmi elettorali si stiano facendo carico delle esigenze del Paese e dei giovani?
E. H.: «La sensazione è di non esserci, di non essere presa in considerazione, di non essere rappresentata. È frustrante, ci si sente sempre al punto di partenza. Prendiamo lo ius soli: com’è possibile che dal 2017, quando lo chiedevamo con presidi permanenti in tutte le città, non sia cambiato nulla? Vivo il conflitto costante di infischiarmene della politica e di continuare a lottare».
A. S.: «Anch’io mi sono informata, ed è davvero sconcertante l’assenza di impegni verso le minoranze: verso chi ha difficoltà di integrazione, la comunità Lgbt, la cura degli animali o altri temi che interessano alla mia generazione. Io ho la cittadinanza italiana, perché “non si sa mai quello che potrebbe succedere”: è inquietante averla presa per questo».
Siamo tante cose, non si può più ragionare per singole battaglie, è l’intersezionalità che conta, la sovrapposizione di identità sociali diverse. L’essere donna complica ancora?
E. H.: «C’è un linguaggio sotterraneo fatto di microagressioni, di discriminazioni che posso affrontare solo con gli altri. Con altre ragazze afrodiscendenti: basta uno sguardo in giro per le strade, per capirci. Con il pretesto di trovare qualcuno per domare i miei capelli afro ho creato un gruppo di amiche, che mi ha aiutato a recuperare le mie origini rimosse. Quel gruppo è un mondo: io sono italo-ruandese, ma ci sono persone somale, nigeriane, congolesi... Sono i miei alleati».
A. S.: «Io invece ho sempre rifuggito dalla comunità rumena. Solo quest’anno per la prima volta in vita mia ho parlato in rumeno con persone conosciute in vacanza».
Che punti di contiguità avete colto tra voi in questo dialogo?
E. H.: «Credo che ci accomuni l’attaccamento alla lingua, la ricerca di un modo di narrare nel modo più preciso possibile. E sono certa che quando ci incontreremo avvertirò la vibrazione di chi sa di appartenere alla stessa grandissima comunità».
A. S. :«Mi piace la parola suddivisione. Siamo tutti divisi in tanti frammenti. L’editoria sta dando risalto a voci nuove, e mi viene in mente Jana Karsaiova. Ma mi ha dato molto fastidio, nel dibattito intorno a lei, un’espressione ricorrente: “a cavallo tra due mondi”. Il mondo è uno solo».
Ci sono autori che amate e che stanno allargando lo sguardo dei lettori?
A. S.: «Mi piace molto Elvis Malaj, di origine albanese. Ma anche una come Valentina Maini è una boccata d’aria su certi temi».
E. H.: «Io confido sui più giovani. Vado nelle scuole, leggo le cose bellissime che scrivono i ragazzi di elementari e medie: saranno loro che, bypassando l’editoria tradizionale, racconteranno il mondo».