Ci sono le fiction che celebrano gli eroi uccisi dalla mafia, e ci sono le serie, che a volte trovano inedite chiavi per aprire forzieri nascosti. È il caso di “The Bad Guy”, incontrovertibile capolavoro di fine anno su Prime Video, che usa una ricchezza narrativa inusuale per raccontare a suo modo che a Palermo il problema no, non è il traffico.
Il gioco della black comedy dalla solida sceneggiatura è quello del cinismo impavido e della satira sottile, capace di ridere della tragedia in un mondo costantemente capovolto dove tutto si sbriciola, come il Ponte sullo Stretto.
Ma quel che trasmette questa inedita modalità è che la mano della criminalità organizzata, in buona sostanza trasforma in miseria ciò che tocca. Perché quello delle Famiglie, del pizzo e delle ostinate vendette è un mondo di devastante solitudine, di povertà intellettuale, di costante e implacabile piccineria affettiva.
Giancarlo Fontana e Giuseppe G. Stasi come novelli Balzac dirigono una Commedia disumana giocata sul doppio, quel sottile confine che separa la tartaruga dal mare, incapace di scegliere tra prigionia e assoluta libertà.
Nel set surreale di un parco acquatico dove le orche masticano i campioni di omertà, il vero diventa sempre anche falso e il salto di campo è tenuto insieme da una costante narrativa forte come un evidenziatore, dove il giallo lasciato sulla scena non è un’esplosione di luce ma l’indice malsano di un rene cattivo.
Così ogni elemento gioca su questo andare e venire, a partire dal corpo stesso di Luigi Lo Cascio (inaudito Lo Cascio) che cambia forma e linguaggio, portando il suo guizzo grottesco verso il fondo di un pozzo scandito dai colpi di scena. Il magistrato Scotellaro vive d’amore e di onestà e l’unica cosa sporca che lo accompagna sono i fazzoletti stropicciati sul naso gocciolante. Il suo alter ego invece, il cugino Balduccio dell’America del Sud, si riveste di rifiuti, perché lui stesso è stato rifiutato, reietto, cacciato di prepotenza dalla vita del prima. Acrilico come le camicie marroni, appiccicoso come i capelli schiacciati sulla fronte, l’improvvisato boss si imprigiona con le sue mani e trasforma la sua fisicità come i suoi giorni.
Alla fine, al di là delle trovate, il fascino del montaggio circolare e quel desiderio di allargare con le dita lo schermo per renderlo cinema, ecco quel che rimane, in attesa della seconda stagione, è il cerchio che si chiude. E mentre i padri e Padrini si ritrovano ancora una volta ostaggi di una convivenza forzata, la dualità si unifica in un’unica certezza: «La mafia è una montagna di merda».