Non è vero che il cinema è l’arma più forte, come volevano Lenin e poi Mussolini. L’arma più forte è sempre la poesia. Ma se il cinema stesso si fa poesia, fermarlo diventa impossibile. Ne sanno qualcosa Ali Asgari e Alireza Khatami, entrambi sulla quarantina, autori di quel “Kafka a Teheran” che arriva ora nelle nostre sale dopo aver incantato Cannes per la sua forma semplice e insieme sofisticata, ma soprattutto radicale. Nove piani sequenza, più un prologo e un epilogo, per dettagliare la tragicommedia della vita quotidiana in Iran. Nove dialoghi tra altrettanti cittadini messi di fronte a interlocutori invisibili che incarnano l’autorità.
«In “Kafka a Teheran” esploriamo le dinamiche del potere nella società iraniana contemporanea attingendo alle idee di Foucault sulla biopolitica e sul biopotere», dicono i registi. «Analizziamo il modo in cui i regimi totalitari controllano gli aspetti personali delle vite degli individui, come ad esempio i corpi, la sessualità e l’identità». Detto così può suonare astratto, ma nulla è più concreto delle situazioni messe in scena nel film. Un padre che non può chiamare il figlio David perché, diamine, «promuoverebbe una cultura straniera». Una bambina dai capelli rossi che balla felice in un negozio di vestiti, cuffia rosa, scarpette rosa, maglietta di Topolino, finché non finisce congelata in un chador che la copre fino ai polsi. Mentre un povero diavolo che vorrebbe solo prendere la patente viene pacatamente, implacabilmente torchiato da un funzionario invisibile quanto insinuante («Prende medicinali? - Solo antiacidi - Dunque è arrabbiato?»). E in un altro episodio probabilmente autobiografico un regista, sfiancato dai rinvii e dalle pressioni del censore, finisce con lo strappare davanti al funzionario pagine e pagine della sua sceneggiatura.
«Non abbiamo mai pensato di mostrare i detentori del potere», dice Ali Asgari da Teheran dove, al ritorno dal Festival di Cannes si è visto confiscare il passaporto e proibire di fare ancora cinema, mentre il coregista Alireza Khatami tornava a Toronto, dove vive. «Sapevamo già scrivendo che sarebbero rimasti fuori campo. Sono solo rappresentanti del sistema, le voci cambiano ma in fondo questi diversi esponenti di un regime che controlla tutto compongono una persona unica. La cosa importante era mostrare in dettaglio ciò che succede al personaggio inquadrato, le sue reazioni alla follia delle richieste, la pressione che subisce».
Il vostro film colpisce anche per la forma molto diretta. L’Occidente ha scoperto l’Iran attraverso una serie di grandi maestri Kiarostami, Mahmalbaf, Panahi, eccetera. Nel loro cinema intessuto di metafore e allegorie, il non detto e l’allusione avevano una parte importante. Cosa rappresentano questi nomi oggi per voi?
«La situazione nel Paese oggi è completamente diversa», risponde Asgari, che da giovane ha studiato cinema al Centro Sperimentale di Roma. «Il nostro film arriva dopo l’uccisione di Mahsa Amini, un enorme scandalo per il governo. Quello che sta succedendo in Iran ci ha permesso di vedere tutto alla luce del “prima” e del “dopo” la nascita del movimento “Donna, Vita, Libertà”. Anche per il cinema c’era un prima e ci sarà un dopo. Come artisti non potevamo più usare modi indiretti, dunque abbiamo deciso di essere più espliciti ma in modo volutamente “artistico”, facendo un film non narrativo. E senza chiedere il permesso, come abbiamo dovuto fare per troppi anni in precedenza. Ormai la gente era scesa nelle strade in Iran. Non potevamo più usare metafore per raccontare una storia, anche se all’inizio e alla fine qualche scena metaforica c’è».
La poesia è stata molto importante per decidere la struttura del film, e nella letteratura persiana non si contano i grandi poeti. Lo stesso titolo internazionale del film, “Terrestrial Verses”, viene da Forough Farrokhzad, grande poetessa e femminista ante litteram che fu anche attrice, regista e documentarista, morta nel 1967 a soli 33 anni (pubblicata in Italia da Aliberti, Orientexpress e Condò). In Iran è un mito, prima o poi qualcuno le dedicherà un film. Ma la grande poesia persiana compare anche in una delle scene più terribili e insieme esilaranti di “Kafka a Teheran”, quando un funzionario contesta a un cittadino i versi “alcolici” di Rumi, poeta e mistico del XII secolo, che porta tatuati su un braccio. Chiediamo ad Asgari: sono ancora molto letti i poeti nel vostro Paese?
«Assolutamente. La poesia è ancora molto importante in Iran, anche nelle occasioni pubbliche, per esempio durante le feste di Capodanno. Nelle strade ci sono bambini che vendono libri di versi. La poesia in generale ha una grande importanza nella cultura iraniana, ben più dei romanzi, è molto amata dalla gente. Anche per questo abbiamo deciso di ispirarci a una tecnica in uso nelle poesie persiane detta il dibattito, in cui due personaggi discutono accanitamente un soggetto politico o sociale. Spesso con molto umorismo, cosa che si tende a dimenticare. Anche se proprio questa componente umoristica ci ha convinti definitivamente a usare questo tipo di forma per il nostro film».
Come mai solo nove episodi se ne avevate scritti quindici? «Non volevamo ripeterci e ci siamo fermati a nove, nove diverse età. La forma scelta esigeva sintesi. Nel primo segmento c’è un neonato, poi i personaggi sono via via sempre più grandi. Il prologo fa da ouverture, un po’ come all’opera. volevamo che Teheran diventasse un altro personaggio, i nostri protagonisti vivono tutti nella capitale. Che alla fine si distrugge. Questo era importante: mostrare Teheran. E poi distruggerla».