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Cultura
novembre, 2023

David Damrosch: «Chi ama i libri dimostra che, di fronte al male, c’è sempre un’altra possibilità»

La necessità di spazi di immaginazione. La lettura come resistenza e libertà. “Secondo il discorso romantico la nazione ha bisogno di un poeta nazionale. Così Shakespeare è diventato poeta nazionale inglese, Puškin, poeta nazionale russo, lo stesso Goethe poeta nazionale tedesco”, dice il fondatore dell’Institute for World Literature

Certo, la letteratura non può salvare il mondo dalle guerre e dalla violenza, ma può contribuire affinché le persone di diverse nazioni, fedi, lingue, appartenenze si sentano e si considerino parti della stessa comunità, una comunità globale di coloro che raccontano e ascoltano le storie. O se vogliamo, «la letteratura serve a capire che c’è sempre un’altra possibilità». Lo dice David Damrosch, settantenne professore di Storia della Letteratura ad Harvard e soprattutto fondatore di Institute for World Literature (istituto per la letteratura mondiale). L’occasione per questa conversazione è il conferimento a Damrosch del Premio Balzan (750 mila franchi svizzeri, di cui la metà da destinare a progetti di ricerca di giovani studiosi). La cerimonia ufficiale è prevista il 17 novembre a Berna. E per quanto possa sembrare sorprendente data la grande quantità di opere letterarie tradotte e diventate fenomeni globali, il termine Letteratura mondiale non è affatto scontato, e se se ne parla oggi, il merito è in gran parte è del nostro interlocutore.

 

Quasi duecento anni fa Goethe parlava della Weltliteratur (letteratura mondiale): uomini che leggono libri prodotti in varie lingue e in dialogo. Era un progetto illuministico. Poi però si è parlato di “letterature comparate”, ed ecco che con lei è tornata l’idea originale. Nel frattempo cosa è successo?
«Abbiamo avuto che fare con il fiorire dei nazionalismi e quindi con l’idea di letterature nazionali. Era prevalso il discorso romantico per cui la nazione ha come carattere principale una lingua e ha bisogno di un poeta nazionale. Così Shakespeare è diventato poeta nazionale inglese, Puškin, poeta nazionale russo, lo stesso Goethe poeta nazionale tedesco e via elencando. Per la verità Goethe non era interessato alla letteratura nazionale non solo per questioni filosofiche ma perché ai suoi tempi la Germania non era una nazione e lui stesso era più popolare all’estero che non a casa sua. Da quel fenomeno di prevalenza delle letterature nazionali è nata la disciplina chiamata “letterature comparate”. In pratica, si trattava di tre letterature: francese, tedesca e britannica che venivano appunto studiate non tanto in dialogo e in traduzione e come un insieme in espansione, ma appunto comparate fra di loro. Gli studiosi erano obbligati a leggere in originale e a non ricorrere alle traduzioni appunto. E questo era un impoverimento».

 

Il poeta e drammaturgo britannico William Shakespeare in un ritratto realizzato intorno al 1600

 

E poi?
«È arrivata la globalizzazione, l’ingresso nel nostro immaginario di altre lingue e culture. E per quanto riguarda gli States abbiamo avuto una massiccia immigrazione dall’Asia e dai Caraibi. Il fenomeno della World Literature è nato dal basso, dai college di gente comune e non dalle università d’élite».

 

E quell’idea include tantissime letterature una volta considerate minori. Intanto: a cosa serve la letteratura?
«Orazio parla di utile e dolce. Abbiamo bisogno di uscire fuori dai nostri confini, vedere altro e pensare che il dolce e il piacevole precede l’utile. Abbiamo necessità di spazi di libertà e immaginazione. Pensi a “Storia di Genji” di Murasaki Shikibu, un’autrice giapponese (in italiano con Einaudi) dell’undicesimo secolo. Nella gerarchia della cultura giapponese la Storia era in cima, ma lei dice: le storie delle vite sono più importanti della Storia».

 

Umberto Eco diceva che chi legge romanzi vive più vite.
«Fra poche settimane sarò a Bologna a parlare di Eco (sorride e solleva dalla scrivania “Il nome della rosa”). Per lui la letteratura era un modo di prendere distanze da se stesso e vedere il mondo con gli occhi altrui. Per me era il più italiano degli scrittori e intellettuali italiani e il più internazionale fra i globali».

 

La letteratura crea memoria. Quando pensiamo a Parigi dell’Ottocento pensiamo a Balzac, la Londra dei poveri è Dickens. Ma c’è una memoria di un testimone che non capisce il contesto generale. È il caso di Fabrizio del Dongo di “Certosa di Parma” di Stendhal, che partecipa alla battaglia di Waterloo ma non percepisce che Napoleone è sconfitto.
«È dai tempi dell’Epopea di Gilgamesh (forse la più antica opera letteraria; Ndr) che mentre impari a leggere apprendi una memoria culturale. Voglio dire, quel testo era così ampiamente diffuso perché serviva a imparare a leggere in lettere cuneiformi. In un mio libro “Around the World in 80 Books” (giro del mondo in 80 libri) racconto l’invenzione letteraria di Kyoto o di Londra».

 

Un ritratto dello scrittore argentino Jorge Luis Borges

 

La letteratura è anche un forma di resistenza. Nadežda Mandel’štam, la moglie di Osip, racconta come il grande poeta russo (forse il più grande in assoluto del Novecento), morto in un Gulag, sul treno verso il confino recitava i versi di Divina Commedia, in italiano.
«Anche Primo Levi ad Auschwitz».

 

Sta dicendo che la letteratura dà forza di fronte al Male?
«Sto dicendo che il messaggio principale della letteratura è: c’è sempre un’altra possibilità. Lo scrittore keniota Ngugi Wa Thiong’o racconta la scuola britannica nel suo Paese dove si insegnava Shakespeare per trasformare i ragazzi in bravi soggetti coloniali di Sua Maestà. E invece lui e i compagni di classe dopo aver letto il bardo pensavano: e allora si può rovesciare un re e una dinastia».

 

Come ha cominciato a leggere i romanzi? In un suo testo dice che fra i primi libri che ha letto da ragazzo c’è stato “La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo”, scritto da Laurence Sterne nella seconda metà del Settecento, un’opera non lineare, piena di digressioni, doppi sensi, considerazioni paradossali, insomma un romanzo che mette in questione la stessa forma del romanzo come genere.
«Potrei aggiungere fra questo tipo di autori Vladimir Nabokov con il suo “Fuoco pallido” (e che mette in questione lo stesso processo di scrittura; Ndr) o Jorge Luis Borges con il “Pierre Menard, autore del Chisciotte”. Amo il gioco letterario e il fatto che in un romanzo tutte le strade sono aperte. Da ragazzo frequentavo una scuola di suore e già allora mi piaceva l’idea di evadere dal giogo delle regole fisse».

 

Aggiungiamo la possibilità di rovesciare i racconti canonici. Per esempio: la distruzione della Torre di Babele può essere vista come una benedizione e non una punizione divina.
«Sì. La moltiplicazione delle lingue è una storia di resistenza alla cultura dominante babilonese».

 

Perché la diversità è un valore?
«Lo è a patto di non far parte della cultura egemone. Se invece ne appartieni puoi essere contento di qualcosa che io chiamo universalismo basato su te stesso, o su una specie di “eccezionalismo”, come spesso accade ai francesi o come era il caso italiano ai tempi del fascismo. Ma anche qui c’è un problema: le piccole nazioni qualche volta il nazionalismo lo apprezzano, per esempio quando sono in conflitto con una potenza che vuole sopprimere la loro cultura, come nel caso ucraino».

 

Quante lingue conosce?
«Ne ho studiate dodici ma non le parlo tutte. Per esempio non parlo l’italiano ma con l’aiuto del dizionario me la cavo».

 

C’è negli States la cultura woke, che in alcune sue forme, contestando il passato cerca di distruggere le sue tracce. Ma quelle tracce sono memoria.
«Io lo chiamo “presentismo”. Il passato, ovunque, è molto fragile e dobbiamo averne cura perché c’è sempre il rischio che sparisca da un giorno all’altro. In una generazione può sparire un’intera memoria. Io lo temo molto. Vorrei fare una digressione biografica».

 

Prego.
«Mio padre era pastore evangelico. Ma aveva radici ebraiche. Gli intellettuali della mia famiglia erano musicisti originari della Polonia occidentale, una volta parte della Germania. Mio bisnonno, laureato in medicina, diventato direttore d’orchestra, lavorava a Breslavia. Ma emigrò negli Stati Uniti e al MET di New York era sempre direttore d’orchestra. Suo nipote ribelle si convertì al protestantesimo. Ma abbiamo sempre un legame con le nostre radici e questa era una delle ragioni per cui ho voluto studiare la lingua ebraica, oltre ovviamente al greco. E per tornare alla cultura woke, mica leggiamo Omero per dire: ecco il giusto rapporto fra uomini e donne».

 

Nella letteratura mondiale sono fondamentali le traduzioni. In Italia abbiamo ottime traduttrici e traduttori (spesso sottopagati). Cosa vuol dire una buona traduzione?
«Permetta un tecnicismo: tradurre bene vuol dire riscrivere un’opera in un modo creativo in un sistema letterario differente».

 

Come lo direbbe ai non addetti ai lavori?
«Tradurre non è perdere o aggiungere ma è creare qualcosa di differente perché l’opera acquisti una nuova vita in un’altra lingua. Una buona traduzione rende giustizia all’ originale avendo un senso nella nuova lingua. Faccio un esempio estremo: Orhan Pamuk, il Nobel turco, è tradotto in una sessantina di lingue. Però metà sono fatte dalle traduzioni in inglese. Mi ha detto che preferisce essere tradotto bene dall’inglese che non male dal turco. L’inglese è usato in tal caso come lingua di transizione».

 

E qui si apre una discussione.

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