Franco Battiato, viaggio nella sua Sicilia

Il 23 marzo l'artista avrebbe compiuto ottant’anni. Una scrittrice che lo ha conosciuto bene lo immagina come nell'isola. Tra i tic, i gusti, le soste. In un percorso più dell’anima che geografico

Immaginare Franco Battiato che ci guida in Sicilia è come pensare a un albatro che si tuffa in un lavandino. E non perché l’isola sia per lui un luogo angusto o estraneo, o poco amato. Tutt’altro. Ma nessuno spazio fisico e urbano, fatto cioè di materia e materiali, di cose e pratiche terrene, può veramente corrispondergli. Nemmeno i luoghi d’Oriente tanto amati. Be’, certo, amava mangiare gli arancini in via Etnea, e passeggiare in via Umberto, nel cuore vispo di Catania, con il filosofo amico Manlio Sgalambro.

 

Ma la sua sensorialità come il tracciato d’anima si muovono in spazi altri, non molto antropizzati, o mondanizzati. La sua geografia come le sue geometrie sono esistenziali. Terreni della mente, immaginativi, fuori dai tempi scanditi dal mercato e dal bisogno, dai meccanismi sociali, ludici e commerciali della città – ogni città. Spazi e lidi da attraversare col corpo o in musica valicando tempo e confini. Da Tripoli a Cartagine, dall’Iraq alla Siberia, dal Giappone al Tibet, dalla Tunisia alla Turchia, dall’Etiopia all’Albania, sicilianizzando il mondo e universalizzando la Sicilia, che affiora dove non c’è, inattesa e trasognata – come nei treni di Tozeur fra le astronavi e le miniere di sale, o nella Prospettiva Nevski, tra le donne coi telai vicino alle finestre. Ad Alexanderplatz, rincasando sotto la neve. Sicilia come Persia o Venezuela, diceva Elio Vittorini. 

 

A me Battiato è sempre apparso un geniale e carismatico alieno, un uomo molteplice, affabile e schivo, ironico e transitorio. Non un saggio, un mistico o un asceta – o meglio, non soltanto – ma un puer vulcanico, dispettoso e duttile come i fanciulli divini dell’Olimpo, tra enorme generosità e improvvise fughe. Come chiedergli, senza fargli violenza o offesa, di farci da guida – lui, così ostile a usi di mondo e convenzioni, anzi persino privo di senso dell’orientamento?

 

Quale pista seguire? La sfida è avvincente, per una come me che continua ad amarlo e frequentarlo – nei sogni, nelle sue canzoni, nei libri che mi ha consigliato o regalato. (Anche stanotte l’ho sognato, e ridevamo. Per questo, incoraggiata, ho iniziato oggi a scrivere di lui). Quale guida sarebbe qui, lui così dis-topico, nel vero senso dell’etimo, rispetto ai luoghi reali e battuti dalla folla? Come seguire, tra asfalto e semafori, chi ti dice che siamo angeli caduti in terra dall’eterno / senza più memoria / per secoli, fino a completa guarigione? Non mi restava che convertire questo percorso in un gioco del mondo, una specie di mappa inconsulta, simile a quella di Cortázar, nel suo romanzo “Rayuela”.

 

 

Attraversando Catania e la Sicilia nella rotta instabile, di suggestione e sogno, della memoria mitica. Con le sue canzoni in cuffia. Tornando indietro quando occorre, o facendo un balzo in avanti, incongruo e improvviso, come fa d’altronde la memoria. Fermandosi quando lui si ferma. Così Battiato, grandioso analogista, che ama evocare e non raccontare, mischiando libere associazioni, si rivela naturale guida – anzi Daimon, per dirla con Hillman – dell’isola tutta. Perché nella sua musica, come nella sua ricerca, c’è l’eclettismo e insieme la forte identità della Sicilia, una memoria prensile e curiosa, che perciò si fa sperimentazione. Provocazione. Il fermento vulcanico. Il mito greco e la magia, il nostro presente unico e millenario. Quella visionarietà della cultura siciliana, la sua radice araba e la disappartenenza, come vocazione e talento. Essere soli, isolati, nel cuore spezzato – e speziato – del mondo. Essere mondi, nel lavandino che si fa oceano.

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