Cultura
12 settembre, 2025Donata Columbro: «Contare i femminicidi è un atto politico»
Una donna uccisa ogni tre giorni. Negli ultimi anni la statistica dei femminicidi in Italia è rimasta tragicamente costante, specchio di quanto la violenza maschile sulle donne sia sistemica e radicata. Eppure nel nostro paese non esiste un database istituzionale e pubblico in cui periodicamente vengono registrati e monitorati questi casi. Chi volesse consultare dati considerati ufficiali sul tema può rivolgersi a due fonti: il report annuale diffuso ogni 25 novembre dall’Istat e quello sul sito del Ministero dell’Interno sugli omicidi volontari, pubblicato trimestralmente e con una parte dedicata alla “violenza di genere”. Sono raccolte disomogenee oltre che per la tempistica di aggiornamento - una annuale, l’altra oggi trimestrale ma fino all’inizio di quest’anno settimanale - anche per la metodologia e i criteri utilizzati. Mentre il report dell’Istat dal 2019 parla di “femminicidio” e distingue tra omicidi in ambito familiare o relazionale, quello del ministero non usa questa parola e classifica i casi in base al sesso della vittima e alla relazione con l’omicida.
«Anche se i femminicidi possono sembrare un fenomeno semplice da monitorare dal punto di vista statistico, in realtà la situazione è molto più complessa», spiega Donata Columbro, giornalista e autrice del saggio Perché contare i femminicidi è un atto politico, in uscita il 16 settembre per Feltrinelli. «Questa difficoltà nasce dal fatto che la stessa definizione di femminicidio si è evoluta nel tempo. Per contare e raccontare correttamente il fenomeno, è necessario un accordo condiviso sulla sua definizione».
Lo scorso luglio l’European Institute for Gender Equality (EIGE) ha pubblicato una ricerca sul femminicidio, nella quale, nonostante riconosca i progressi nell’Ue, incoraggia gli Stati a “stabilire una definizione giuridica comune di femminicidio” e li invita a una raccolta “più ampia di dati relativi al contesto e alle circostanze”, per favorire una “migliore comprensione del femminicidio e consentire miglioramenti nello sviluppo e nell'uso degli strumenti di valutazione del rischio”.
Nel libro L’invincibile estate di Liliana in cui ricostruisce la storia del femminicidio della sorella, la scrittrice messicana e vincitrice del premio Pulitzer 2024 Cristina Rivera Garza scrive che “la mancanza di linguaggio è impressionante. La mancanza di linguaggio ci lega, ci soffoca, ci strangola, ci spara, ci scuoia, ci fa a pezzi, ci condanna”.
L’assenza di coordinamento e di un registro ufficiale implica che la violenza sulle donne venga inglobata in statistiche più generali, all’interno delle quali molti casi di femminicidio finiscono per scomparire. Ad esempio quando la vittima è una sex worker, una persona disabile, senza fissa dimora o una donna trans.
“I dati sono politici, contare è un atto politico e soprattutto non è neutro”, scrive Columbro nel suo saggio. E “decidere cosa conta” è “una forma di potere”. Contare, infatti, non è un atto di precisione statistica, ma ha ricadute concrete. “L’obiettivo non è avere un numero finale, ma utilizzare questi dati per informare le decisioni politiche, orientare gli investimenti e identificare le somiglianze tra i vari casi. Io credo che guardando i dettagli di queste storie possiamo trovare altri dati, che non siano solo quelli amministrativi e che ci possono indicare come agire”, dice Columbro. “Quella donna aveva contattato un centro antiviolenza? Aveva una rete di amicizie? Era isolata? La vittima ha lasciato dei figli? E dove sono i dati sulle sopravvissute?”
Sono elementi che sfuggono alle raccolte ufficiali, ma che si ritrovano in quelle portate avanti da movimenti femministi e centri antiviolenza, nei contro-archivi di giornaliste, associazioni e collettivi. Come l’Osservatorio Femminicidi Lesbicidi Transcidi di Non Una Di Meno, aggiornato l’8 di ogni mese con dati raccolti in modo autonomo, compresi quelli su suicidi indotti, tentati femminicidi, numero di figli presenti durante il delitto o rimasti orfani, eventuali denunce o segnalazioni. Un altro esempio è il report elaborato dalla Casa delle Donne per non subire violenza di Bologna, che partendo dai casi di cronaca incrocia numeri, nomi, cognomi e storie che altrimenti andrebbero perse. Anche le voci delle donne che vengono uccise, le loro testimonianze e la loro versione costituiscono dei dati.
È quello che la ricercatrice e professoressa del Massachusetts Institute of Technology, Catherine D’Ignazio, definisce un lavoro “creativo, intellettuale ed emotivo” di raccolta di “controdati” portato avanti da attiviste femministe dei dati in diverse parti del mondo, a partire dall’America Latina.
Secondo Columbro, quello dal basso è anche un “grande lavoro di cura”, che è “fondamentale per mantenere alta l’attenzione su tutte quelle situazioni che non vengono raccontate dai giornali o per vari motivi non finiscono nelle tabelle amministrative”. Senza questo lavoro, aggiunge, “saremmo rimasti molto indietro. Sono le reti dal basso che possono aiutare lo Stato a capire cosa deve fare”.
Raccogliere ulteriori elementi e le storie, inoltre, consente di lavorare sul riconoscimento dei segni della violenza e cambiare il programma di prevenzione a partire anche dalle parole che vengono usate: contare i femminicidi diventa “uno strumento per riconoscere schemi, evidenziare responsabilità e alimentare il dibattito pubblico”. Chi raccoglie questi dati fuori dalle istituzioni “non si limita a documentare: sfida il potere, costruisce consapevolezza, restituisce dignità”.
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