Cultura
23 ottobre, 2025Dalla Fondation Cartier alla Collezione Pinault, dal Musée des Arts Décoratifs alla Fondation Louis Vuitton la città esplode di creatività e di bellezza
Il Centre Pompidou, cuore pulsante dell’arte moderna e contemporanea, ha chiuso le sue porte per un restauro che durerà almeno cinque anni. Ma Parigi non rallenta affatto, non si ripiega né cerca surrogati, ma si espande e continua a sorprendere. Non si tratta di compensare un’assenza, ma di ascoltare il silenzio. E il vuoto, da quelle parti, non è mancanza, ma una soglia: la stessa sulla quale Parigi fiorisce.
Siamo in una città che da sempre si fonda sulla tensione tra il centro e il margine, il monumento e l’interstizio, il rigore e la digressione e non è quindi un caso che proprio ora, nell’epoca della sospensione museale, emergano nuovi spazi, nuovi gesti e nuovi modi di intendere l’arte e la sua fruizione. Quella a cui assistiamo, è una rifondazione culturale non dichiarata, ma evidente, diffusa e ben strutturata non su grandi proclami, ma su architetture leggere, intuizioni intelligenti, formule mobili e pratiche situazionali. Se è vero che si fiorisce sul bordo più che nel centro, la Parigi del 2025 e degli anni che verranno è una pianta (stra)ordinaria che cresce ovunque e contamina tutto.
Un segnale chiaro in tal senso viene dalla nuova sede della Fondation Cartier pour l’Art Contemporain, che inaugura il 25 ottobre a due passi dal Louvre e il Palais Royal. L’edificio – aperto per la prima volta nel 1855 come Grand Hotel du Louvre, per trasformarsi nei Grands Magasins nel 1863 e poi in Louvre des Antiquaires nel 1978 - porta oggi la firma di Jean Nouvel, che torna così a dialogare con sé stesso e la città. «Non bisogna mai ripetere un gesto», ci disse lo scorso aprile a Venezia, alla presentazione ufficiale del progetto sull’Isola di San Giorgio Maggiore, durante la 19esima Biennale d’Architettura che chiuderà il 26 novembre prossimo. «L’architettura non è l’arte di produrre forme, ma l’arte di creare situazioni», precisò. E allora, a trent’anni dal celebre edificio di boulevard Raspail - tutto vetro, trasparenza e giardino – l’archistar sceglie «il più haussmanniano tra i palazzi haussmanniani», come lo definisce la direttrice Grazia Quaroni, con cui lo visitiamo in anteprima - e lo apre verticalmente con un gesto sottilmente sovversivo. «Il risultato è una struttura interna composta da piattaforme mobili che possono salire, scendere e scomparire, creando ogni volta spazi diversi che mutano e che si riformano. Non più contenitori, ma situazioni, uno spazio che si fa macchina relazionale, struttura adattiva e corpo vivo».
La mostra inaugurale, “Exposition Universelle”, che sarà visitabile fino al 23 agosto del 2026, «è una stratificazione di narrazioni globali, fratturate e plurali», aggiunge Quaroni. La grammatica espositiva è aperta e in perenne movimento. L’arte contemporanea, in questo edificio già cult prima ancora di aprire – «non diventiamo un museo ma tutto sarà temporaneo», precisa lei – qui non si contempla, ma si attraversa e si condivide anche a distanza. Non ci sono muri, la scenografia di Formafantasma con colori e tessuti particolari riesce a evitare l’effetto “white cube” lasciando tutto aperto sulla piazza del Palais Royal senza creare fratture tra il dentro e il fuori.
Sono straordinarie davvero le vetrine sulla rue de Rivoli che permettono un dialogo tra i visitatori del dirimpettaio Louvre e viceversa, ed è così che anche i pedoni fanno parte del panorama di questa mostra temporanea «che dà una grande attenzione all’architettura, alla foresta, all’umano e a ciò che non lo è, alle scienze e alle matematiche, alla filosofia senza mai dimenticare l’aspetto visionario». Le opere provengono tutte dalla Collezione della maison francese e sono tantissime: si va dalla cattedrale colorata di Alessandro Mendini vicina al muro fatto per accogliere il quadro di Peter Halley, alla scultura in bronzo Nini sur son arbre di Agnès Varda, pioniera della Nouvelle Vague, senza dimenticare il colloquio filosofico con il Premio Nobel per la Letteratura Svetlana Aleksievič e le fotografie di David Lynch e Patty Smith. «Qui - assicurano – sarà possibile fare ciò che non può essere fatto altrove».
Poco distante, alla Bourse de Commerce, la Collezione Pinault propone fino al 19 gennaio del prossimo anno “Minimal”, una mostra sulla radicalità della semplicità. Non il minimalismo come stile, ma come scelta etica. Concentrare, dunque, e non sottrarre; la precisione contro la ridondanza; una tensione silenziosa contro l’urlo permanente dell’immagine. Sono oltre cento le opere che testimoniano la diversità dell’arte minimalista negli anni Sessanta, quando un’intera generazione di artisti diede vita a un approccio radicalmente nuovo nei confronti dell’arte.
Curata da Jessica Morgan, direttrice della Dia Art Foundation, si articola in sette sezioni (Luce, Mono-ha, Equilibrio, Superficie, Griglia, Monocromia e Materialismo) con opere contraddistinte da un’estetica essenziale, da un’economia di mezzi e da un nuovo rapporto tra opera e osservatore. Tutti gli artisti coinvolti – da Eva Esse a David Lamelas, da Agnes Martin a Enzo Mari, da Richard Serra a Dan Flavin e molti altri – hanno messo in discussione i tradizionali metodi espositivi, promuovendo un’interazione diretta e fisica con l’opera, integrando lo spazio e l’osservazione nello stesso processo artistico. Particolare davvero, nella scenografica sala centrale, l’allestimento di Meg Webster, con opere dense di materia e spazio in dialogo con l’essenzialità ascetica dell’architettura di Tadao Ando. L’effetto è di una metafisica inversa: il barocco della struttura si placa nell’austerità dell’arte che non vuole intrattenere, ma interpellare. «Questa mostra è un invito a sottrarsi all’inflazione del senso e a praticare un silenzio, oggi più che mai necessario», spiega l’artista americana.
Al Musée des Arts Décoratifs, la mostra “1925-2025. Un siècle d’Art Déco” (inaugura il 22 ottobre e sarà aperta fino al 22 febbraio 2026) celebra i cento anni dell’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Parigi. Non è solo una rievocazione storica, ma un viaggio immersivo tra oltre mille opere che raccontano l’audacia, la raffinatezza e le contraddizioni di uno stile ancora vivo e sorprendente. Mobili dalle linee scultoree, gioielli dalle geometrie perfette, oggetti d’arte, disegni, manifesti, abiti e tessuti creano un percorso multisensoriale che attraversa decenni di creatività. La scenografia, firmata dall’Atelier Jodar e dallo Studio MDA, valorizza materiali sontuosi e savoir-faire artigianali con un’esperienza estetica in perfetto equilibrio tra storia e presente.
La parte più affascinante è quella dedicata al mitico Orient Express, che non solo espone la carrozza storica Étoile du Nord, ma mostra in anteprima le maquette e gli oggetti del nuovo treno di lusso, disegnati dal direttore creativo del marchio Maxime d’Angeac che ha lavorato con gli artigiani francesi, creando ogni dettaglio del tanto atteso treno degli anni Venti che sarà sui binari internazionali nel 2027 (su quelli nazionali, da aprile c’è già quello firmato da Dimore Studio). Nel frattempo, Orient Express, di proprietà del gruppo Accor, rinasce anche come hotels (a Roma e a Venezia) e un veliero (Orient Express Corinthian, il cui il varo è previsto a giugno del 2026) diventando così un oggetto artistico mobile, un viaggio più che mera destinazione, cinema e architettura, decorazione e ingegneria. E se è vero, come scriveva Paul Morand, che «il treno è il solo modo di viaggiare che dà all’immaginazione il tempo di sognare», questa mostra propone davvero una topografia del desiderio e un’estetica dell’altrove.
Se è vero che nel raccoglimento si gioca forse l’atto più radicale, lo trovate al Museo Jacquemart-André, con la retrospettiva “Tra ombra e luce” dedicata a Georges de La Tour (fino al 25 gennaio prossimo), una lezione di resistenza visiva. Nei quadri esposti, circa una trentina, le sue candele non illuminano, ma rivelano, e i suoi personaggi sostano in un tempo pittorico che non si consuma, ma si dilata. L’artista, nato nel 1593 a Vic-sur-Seille, nel cuore della Lorena ancora indipendente, costringe lo spettatore alla presenza, a restare e a guardare anche quando nulla accade, un po’ come fa Parigi che ammalia e conquista sempre chi la frequenta e vive, o semplicemente attraversa chiedendo sempre a suo modo attenzione.
Al Bois de Boulogne, la Fondation Louis Vuitton dopo il grande successo ottenuto con la mostra dedicata a David Hockney e al suo stile solare, narrativo ed irriverente punta su un più introverso, teorico e sfuggente Gerhard Richter(fino al 2 marzo 2026), dedicandogli una retrospettiva senza precedenti nella sua portata e temporalità. Sono 270 le sue opere in mostra realizzate dal 1962 al 2024, riunite dopo la decisione dell’artista tedesco - nato a Dresda nel 1932 con studio a Colonia – di smettere di dipingere nel 2017, ma non di disegnare.
Altrove, poco distante da Place de la Concorde, c’è la Collezione Al Thani, ospitata in gallerie elegantemente restaurate all’interno dell’Hôtel de la Marine, un tempo sede del Ministero della Marina francese, punto di riferimento per tutti gli appassionati d’arte, perché è un viaggio attraverso la creatività umana, un inno alla bellezza che attraversa epoche, civiltà e continenti.
Ultimo, ma non certo per importanza, l’appuntamento con la quarta edizione di Art Basel Paris, al Grand Palais dal 24 al 26 ottobre prossimi. L’avenue Winston Churchill diventerà un grande museo a cielo aperto, ospitando sette sculture e installazioni monumentali di Thomas Houseago, Leiko Ikemura, Wang Keping, Vojtěch Kovařík, Muller Van Severen, Stefan Rinck e Arlene Shechet. La fiera continuerà per tutta la città con diversi appuntamenti, tra cui quello al Palais d’Iéna, nell’ex sede del Consiglio economico, sociale e ambientale francese, trasformato in un palcoscenico sperimentale sostenuto da Miu Miu per 30 Blizzards, della scrittrice e artista londinese Helen Marten, e quello a Place Vendôme con l'artista americano Alex Da Corte, che vi farà immergere nel suo mondo giocoso, un mondo che a Parigi, nonostante tutto, non manca mai.
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