Cultura
3 dicembre, 2025Testi graffianti, nonsense, rime molto spericolate. Con il suo primo album, “Mi piace”, la cantautrice catanese ha vinto la Targa Tenco: “È come se oggi l’ironia fosse diventata ipocrita”
Anna Castiglia: "Vivo a Milano, ma odio gli aperitivi"
Difficile dire cos’abbiano in comune Amy Winehouse, Stromae e Pino Daniele, se non il fatto di occupare un posto d’onore nel pantheon di Anna Castiglia. Sorprendente, teatrale, catanese di nascita e milanese di adozione, la giovane cantautrice ha fatto dell’ironia e del paradosso la propria cifra stilistica. Dopo aver calcato il palco di X Factor, con il suo album d’esordio ”Mi piace” ha vinto quest’anno la Targa Tenco come miglior opera prima. Ha convinto la giuria con testi graffianti, apparentemente nonsense, rime spericolate e canzoni fuori dagli schemi come “Ghali” (“E i poveri cantautori si vendono nell’app (Nooo!)/ Ma fanno pochi ascolti per colpa della trap/ Per questo ho fatto cambiamenti radicali (Ah sì?! Ma dai?!)/ Adesso il mio modello è Ghali”) e “U mari”, con cui evoca nostalgia e solitudine, gioca con il dialetto siciliano, prende in giro tutti e anche se stessa.
Alla Milano Music Week, qualche giorno fa, ha tenuto un workshop pensato «per chi scrive canzoni o per chi sente di avere qualcosa da dire ma non sa ancora da dove iniziare».
Anna Castiglia, lei da dove ha iniziato?
«Mio padre è un comico, mia madre un’attrice. Si sono conosciuti in teatro, facevano parte di una compagnia amatoriale di Catania. Recitavano nella stessa commedia musicale, “La zia di Carlo”. Mia madre faceva la zia, l’avevano invecchiata al trucco, mio padre Carlo. Mia sorella gemella, invece, si chiama Nina e vive a Parigi, fa l’acrobata in un circo contemporaneo».
Quando lei ha deciso di fare la cantautrice, dunque, non ha fatto notizia.
«Direi di no. Ci sono genitori che non capiscono di cosa si occupano i figli, succede spesso ai miei colleghi e colleghe. Magari chiedono: “Cos’è? Non è un vero lavoro”. Il mio caso è diverso: mi ha aiutato vedere fin da piccola che raccontare barzellette può diventare un mestiere».
Quando ha capito che la musica sarebbe diventata la sua vita?
«È avvenuto gradualmente. A Catania facevo le cover, quando sono arrivata a Torino invece sono capitata al Blah Blah, lo storico locale in via Po, ho chiesto se potevo suonare. “Qui non si fa pianobar, puoi fare i pezzi tuoi. Un concerto intero”, mi hanno detto. Ho risposto: “Come è possibile? Sono una sconosciuta”. Allora ho pensato: “Qui a Torino si fa sul serio”. Ecco com’è andata».
È cresciuta a Catania, poi si è trasferita a Torino infine a Milano. Come convivono queste tre città dentro di lei?
«A Catania ho imparato l’ironia, la praticità, il modo di comunicare. A Torino mi sono resa conto che la musica può essere un lavoro. Milano è una base dove vivere, senza per forza lavorarci. Qui c’è la mia band, qui ho capito cosa significa suonare in gruppo. C’è un bel fermento».
Capisco. La giostra degli aperitivi.
«No, niente aperitivi. Mi piace andare a pranzo ai Navigli, mangiare la patata ripiena, poi al mercatino. Esco solo per concerti e ceno a casa».
Parliamo di musica. Lei ha collaborato, tra gli altri, con Max Gazzè e Carmen Consoli. Cosa le hanno trasmesso?
«Max ha una capacità straordinaria di inventarsi. Conosce talmente tante cose che può interpretare un chirurgo o un idraulico come se fosse laureato sull’argomento. Carmen invece mi ha insegnato l’umiltà, una catanesità che mi fa sentire a casa. Quando sono andata a sentirla al Teatro degli Arcimboldi mi ha fatto sentire subito a mio agio. “Ci dobbiamo prendere una granita insieme”, mi ha detto. “Vabbè, è una di noi”, ho pensato. E poi, parlando di idoli, mi è venuto in mente Ernesto Assante, che era mio insegnante al Conservatorio di Milano. Trattava gli artisti emergenti alla stessa stregua di Paul McCartney o Elodie. Amavo molto il suo approccio, non uscivi mai scoraggiata dalle sue lezioni. Molti suoi coetanei ripetono: ora fa tutto schifo, ai nostri tempi era meglio. E allora ti viene da pensare: “Che senso ha che io sia qui?”. Con lui non succedeva mai».
I testi delle sue canzoni sono sempre intrisi di ironia.
«Tendenzialmente nella vita sono un po’ pesante e quindi cerco di alleggerire. Mi diverto a scrivere in questo modo. Di recente ho letto un libro di Julie Ackermann, “Hyperpop” (il libro dell’editrice statunitense edito in Italia da Nero editions, ndr), in cui si afferma che l’ironia è sempre esistita. Io dico che lo stesso Tenco, dipinto da molti come il Leopardi della musica, in alcuni brani era molto ironico. Oggi, però, è come se questo approccio fosse diventato ipocrita. Tanto è vero che un’artista come Charli XCX con il suo album “Brat” (uscito nel 2024, l’espressione significa atteggiamento sicuro, indipendente, edonistico, ndr), critica tutto in maniera diretta. E va oltre il sarcasmo».
Non sempre l’ironia viene capita, però. La sua canzone “Ghali”, per esempio, è stata apprezzata da molti ma ha irritato la comunità ebraica per il passaggio “Non ho mai soldi in tasca, li chiedo sempre ai miei/ Ma sono in bancarotta, tutta colpa degli ebrei”. Aveva previsto che sarebbe accaduto?
«Si tratta palesemente di una frase ironica. Nella canzone dico cose anche più gravi, come “colpa del negro”, una citazione di Vasco Rossi. La comunità ebraica ha capito l’ironia del mio testo ma hanno detto che, letto con superficialità, può lanciare un messaggio negativo. Me ne rendo conto, ma auspico che la mia canzone non venga ascoltata con superficialità».
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