Cultura
23 dicembre, 2025Divorziata negli anni Venti. Patitadi automobili. Cuoca proverbiale. Pazza per il surf. Il segreto della giallista più grande di tutti è nella sua vitalità. E in uno spirito indipendente che a 50 anni dalla morte resta modernissimo
Perché Agatha Christie ci dà così tanta felicità? È una domanda che mi faccio da quarant’anni, da quando ho iniziato a leggerla compulsivamente da bambina, nel 1986. Perché è un genio, mi dicevo. La risposta però non mi convinceva, in lei c’è una strana contraddizione, quasi irrisolvibile: è una scrittrice geniale, senza dubbio, ma non ha una scrittura geniale. Non è Karen Blixen o Virginia Woolf, per citare due sue coetanee. Anzi, spesso è sciatta, frettolosa. Eppure. Riesce a farsi amare in modo viscerale da milioni di lettori, di tutti i luoghi e di tutte le età. Qual è, allora, il suo segreto?
L’ho capito quando ho cominciato a studiare Agatha in persona, in occasione dei cinquant’anni dalla sua morte, che cadranno il 12 gennaio del 2026. La chiave del mistero, secondo me, è la sua gioia di vivere. È la scrittrice più gioiosa che abbia mai incontrato. E questa immensa gioia di vivere – furiosa, purissima – nelle sue opere che apparentemente parlano di morte, si sente. Lavora sotterranea, trasuda, contagia.
La sua felicità comincia nell’infanzia. «Una delle cose più belle che possono toccare a una persona è un’infanzia felice. La mia lo è stata molto», è l’incipit del racconto della sua avventura esistenziale, “La mia vita” (trad. di Maria Giulia Castagnone, Mondadori). Lì bisogna cercare l’Agatha più profonda e duratura: nella casa di Ashfield, a Torquey. È quella bambina di epoca vittoriana che ci parla nei romanzi (che parla alla nostra anima di sei anni, più precisamente). La sua voce è così potente perché se l’è inventata per dare gioia prima di tutto a sé stessa, l’ha collaudata da piccola, raccontandosi storie da sola in giardino.
«In fondo tutti siamo quelli che eravamo a tre, sei, dieci o vent’anni», dice. «E tuttavia riusciamo a ritrovarci più facilmente nei nostri sei anni che nei venti, quando tutte le energie sono tese a cercare di farci sembrare diversi da quelli siamo». Come scrive Antonio Moresco nella splendida introduzione a “Fiabe gialle” (curatore del Meridiano Mondadori a lei dedicato) c’è «una bambina dentro un’adulta, come un insetto dentro una goccia d’ambra, però ancora sanguinante e vivo».
Poi, certo, la voce di quella bambina dell’ultimo decennio dell’Ottocento è stata presa in mano da una grande professionista del Novecento. Sui documenti scrive casalinga, ma è consapevole di avere un grande mestiere. Quando le chiedono come vuole essere ricordata, si legge nella biografia di Lucy Worsley, “La vita segreta di Agatha Christie” (trad. di Laura Serra, Salani), lei risponde: «Come una scrittrice di gialli che sa il fatto suo». Effettivamente.
Agatha si sminuisce, definisce il suo lavoro una «fabbrica di salsicce», scherza sul «Christie for Christmas», sostiene di essere un’artigiana e non un’artista, che il suo è intrattenimento e non letteratura, ma oggi si comincia a rivalutare la sua opera, a leggerla con meno pregiudizi. «Nessuno ha l’inconfondibile tocco, lo scarto inventivo e l’ardimento di Christie, il suo scavo esistenziale e la sua zampata metafisica», dice uno scrittore raffinato come Moresco.
La gente tende a immaginare Agatha Christie come una gentile vecchietta, bonaria e grassoccia, che beve il tè («Una sorridente, tenera nonna dagli occhi grigi che colleziona bei vassoi di cartapesta», la descrivono su Life). È un equivoco ricorrente nella sua vita. La bambinaia di sua figlia la scambia per la cuoca di casa. Alla festa in suo onore al Savoy, dove è attesa da una trentina di fotografi, non la fanno entrare in anticipo nel salone perché non la riconoscono (e lei è troppo timida per dire che sarebbe la signora Christie).
In realtà Agatha Christie è una donna moderna, che affronta due guerre (in entrambe è infermiera volontaria, e al dispensario scopre i veleni, che saranno fondamentali nella sua carriera), che lavora duro per sessant’anni, pubblicando settantadue libri e diciassette commedie. Una donna che guadagna una fortuna con la sua fatica (nasce da una famiglia benestante, ma il padre perde il patrimonio). Una donna divorziata negli anni Venti, single con una figlia, che va da uno psicologo. E fa addirittura surf.
Per capire la portata della sua gioia di vivere basta guardare le foto del viaggio che ha fatto con il suo primo marito, Archie Christie, nel 1922. Lei che ride, in costume da bagno, con un cappellino calcato sulla fronte e una tavola da surf a Muizenberg, vicino a Cape Town (una delle spiagge più pericolose al mondo, piena di squali bianchi) e a Honolulu. «Nulla era come quell’essere scagliati sulla cresta dell’onda a una velocità che sembrava di trecento chilometri orari, fino a giungere a riva, rallentando dolcemente e lasciandomi andare in mezzo alle onde miti. È uno dei piaceri fisici più totali che abbia mai provato», racconta in “Il giro del mondo” (trad. Giulia Failla, Mondadori).
È una donna moderna e spericolata, ma quale Miss Marple. Per cinque sterline vola per cinque minuti in aereo nel 1911. Ama i treni (l’Orient Express in particolare) e con l’anticipo di un romanzo nel 1924 si compra una macchina, una piccola Morris. Agatha sfreccia, con qualsiasi mezzo. Le piace il sesso e, cosa rara per un’inglese della sua epoca, non si fa problemi a parlarne, soprattutto con il secondo marito archeologo, Max Mallowan, di quattordici anni più giovane. E viaggia, anche da sola, passa mesi in Iraq e in Siria, a pulire reperti archeologici con la sua crema da viso.
Però, attenzione, la sua gioia di vivere non è solo avventurosa. Per essere intera, deve avere il lato casereccio. Anche in questo Agatha è grandiosa. «È stupefacente quante cose possano piacerci e non c’è niente che dia tanta soddisfazione quanto l’essere capaci di accettare e godere la vita», dice. La casa? La casa è fondamentale: lei ne compra otto. Continua a giocare alle case, la sua attività preferita da bambina, solo che non sono più di bambola, sono ville, anche impegnative da mantenere. Ma nulla la rende più felice. «Ho comprato case, scambiato case, arredato case, ristrutturato case. Case! Dio benedica le case!» Sono tutte molto piene di oggetti (è un’accumulatrice seriale, per i ninnoli ha proprio una malattia), ma anche di bambini, di giovani e di cani, che lei ama enormemente (spesso si paragona a un cane).
Poi c’è il cibo. È golosissima e cucina bene (le piace anche fare le pulizie, tanto che quando sei editori rifiutano il suo primo romanzo, “Poirot a Styles Court”, non esclude di cercarsi un lavoro come cameriera). Adora le salse. Le sue cene durano due ore e hanno un numero di portate infinito. Una montagna di caviale, vol-au-vent, soufflé, aragosta condita con salsa all’uovo e brandy, pane imburrato con fegatini di pollo e bacon, piccione arrosto, salmone farcito con maionese, torta di ciliegie. Infatti diventa parecchio grassa. È astemia, lo champagne lo offre agli altri, per lei panna, panna e panna (nella sua tazza con scritto sopra: Non essere ingordo).
È interessante il rapporto che ha con il suo corpo, c’entra anche con il rapporto che ha con la sua fama. Agatha non sopporta le conseguenze del successo: stare in pubblico, essere fotografata, essere costretta a partecipare agli eventi mondani. Un po’ perché è timida, un po’ perché ama stare solo con la sua famiglia o gli amici intimi e un po’ perché si vergogna del suo aspetto. «Ottantatré chili di carne soda, con quella che si può solo definire una faccia buona», si descrive così. Racconta di paparazzi che l’hanno seguita in vacanza al mare e hanno pubblicato «il primo piano di un sederone». Le piace chiudersi in una delle sue case a scrivere, ne sente proprio il bisogno. Con estrema gioia – facilità o felicità – sforna il suo «Christie for Christmas» dell’anno. Ma non è una solitaria. È contenta di stare con le persone che ama (si crea una famiglia allargata di amici, oltre ai parenti). È socievolissima, ma solo con chi le pare. Con tutti gli altri è sfuggente.
Quello che si agita intorno a lei, fuori dal suo mondo, non lo tollera. Va a disturbare la sua gioia, che deve difendere. La nonna aveva «il dono naturale della felicità», racconta suo nipote Mathew.
Agatha Christie ha proprio la «predisposizione alla felicità», per usare un’espressione sua. «Mi svegliavo sempre pervasa da un sentimento che dovrebbe essere connaturato a tutti noi, la gioia di essere al mondo», scrive. «Non ne ero consapevole, naturalmente, non in questi termini, almeno, ma il fatto che c’ero, che ero viva, che aprivo gli occhi e davanti a me avevo un altro giorno, un altro passo nel cammino verso l’ignoto. Quel viaggio entusiasmante che è la vita».
Come tutte le persone che sono in grado di avere rapporti seri con la felicità, Agatha Christie ha i suoi precipizi, direttamente proporzionali e inevitabili. L’anno orribile per lei è 1926. Altro anniversario da festeggiare: cento anni dal suo crollo e dalla sua rinascita. Quando scompare per undici giorni in preda a una fuga dissociativa, provata dalla morte della madre a cui era legatissima e dall’abbandono del primo marito, che si è innamorato della sua segretaria e vuole il divorzio. Agatha si ammala (cadrà in depressione di nuovo durante la seconda guerra mondiale). Però va da uno psicologo, scrive alcuni dei suoi libri più belli e rinasce dalle sue ceneri, pronta per incontrare un giovane archeologo con cui si farà delle magnifiche risate. Prima di morire dice alla figlia che è contenta di non avere ascoltato sua sorella Madge quando le sconsigliava di sposare Max: «Mi sarei persa quarant’anni di felicità».
Agatha ha tante vite, è una maga delle resurrezioni. Per questo forse ci fa sempre rinascere un po’. «Mi piace vivere», scrive. «È capitato anche a me di essere in balia di una profonda disperazione, di un’infelicità acuta, o di un terribile dolore, eppure so con certezza pressoché assoluta che essere vivi è una cosa straordinaria».
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