Una vita per la musica, nonostante “quella”, disgrazia. Raimondo Campisi, musicista di fama internazionale, accoglie il giornalista de L’Espresso liberandosi, con un gesto di stizza, del deambulatore, il dispositivo medico che, per una frattura al femore del 2023, lo aveva costretto in precedenza a stare in carrozzella. Ora, da otto anni, causa un infarto, è ospite della Fondazione per musicisti Giuseppe Verdi di Milano, in piazzale Buonarroti, fondata nel 1899, dove vivono oltre 50 artisti di tutto il mondo, anche con un contributo minimo in base al proprio reddito, ma, soprattutto, grazie alla generosità filantropica del “cigno di Busseto”.
Prima di incontrarlo, si attraversa il Salone d'onore, capienza quasi 100 posti, sul muro i ritratti di compositori considerati da Verdi «padri della musica e del bel canto italiano»: Giovanni da Palestrina, Monteverdi, Frescobaldi, Scarlatti, Benedetto Marcello, Pergolesi, Cimarosa e Rossini. In una stanza Campisi si “allena” con un Grotrian-Steinweg. Si accomoda sullo sgabello, poggia le mani sul pianoforte e le fa scivolare sui tasti per un primo pezzo, il Preludio numero 15 di Chopin, la cosiddetta Goccia. Poi cambia con “Je te veux”, di Erik Satie, autore francese tra Ottocento e Novecento. Si interrompe e sospira: «Quanti bis mi hanno chiesto! Ora abito in una istituzione creata per musicisti in difficoltà. Forse è una leggenda, ma si dice che un giorno, mentre era in giro per Milano, Verdi abbia fatto fermare la sua carrozza dopo aver scorto un uomo mentre chiedeva l'elemosina. L'aveva riconosciuto: aveva cantato in una delle sue opere». Campisi si commuove. E subito rievoca un passato ricco di successi.
Tra le sue memorie, una soirée organizzata dalla Società dei concerti di Milano, un'autentica maratona dedicata a Chopin: 14 valzer, l’Andante Spianato e Grande Polacca Brillante op. 22; un Bolero op. 19 e tre Mazurche op. 59. Uno sforzo immenso. Era l'ottobre del 1984, “Sala Verdi” del Conservatorio strapiena. Entusiasta il critico del Corriere della Sera, Mario Pasi: “Una serata festosa”.
Raimondo Campisi, milanese, è nato nel 1947 in Egitto, a Heliopolis, quartiere del Cairo. Suo nonno Salvatore, di Messina, era oboista dell'orchestra sinfonica San Carlo di Napoli, successivamente trasferitosi a Milano. E quando la Scala venne invitata per la prima rappresentazione dell'Aida di Verdi in Egitto, nel 1871, Salvatore Campisi vi prese parte, accompagnato dalla moglie milanese, allora incinta. Così è venuto alla luce prima Oreste, padre di Raimondo, pianista e direttore dell'orchestra dell'Opera al Cairo e, in seguito, lo stesso Raimondo. Che muove i primi passi nella musica, grazie agli insegnamenti del pianista polacco Ignace Tiegerman, allievo di un allievo di Chopin. Nel 1958 la famiglia Campisi torna a Milano. Dove Raimondo segue le lezioni di Alberto Mozzati, notissimo pianista cieco. «Ma quale cieco!», scherza Campisi, «una volta mi ha ripreso, urlando: “Ma che cosa stai facendo?” Pur senza vedere, sapeva benissimo se stessi usando le diteggiature giuste». Nel 1970 Campisi si diploma al Conservatorio Verdi di Milano. Vorrebbe comprare un’automobile. Suo padre lo rimprovera: «Hai bisogno di denaro? Vai a lavorare». Detto fatto. Lui si butta su pop e rock. Oggi sorride: «Una band degli anni ‘60, Le Anime, cercava un organista. Andavamo al Bang Bang (il futuro Divina ndr). Risultato: mi sono preso una bella macchina».
Da docente, insegna Pianoforte principale al Conservatorio Nicolini di Piacenza per oltre 15 anni. Si sposa nel 1978, separandosi nel ’97, con una psichiatra italiana: fu amore a prima vista. Conosce grandi pianisti, Arturo Benedetti Michelangeli e Nikita Magaloff. Partecipa a numerose competizioni. Nel 1973 gli viene assegnato il primo premio al concorso Ettore Pozzoli di Seregno, dove, all’edizione del 1959, era già prevalso Maurizio Pollini. Nel giugno 1974 si aggiudica il premio del pubblico al 4° concorso Cziffra a Versailles. Le Monde elogia il suo «lirismo, il rubato, la sonorità e il tocco» del concerto n. 1 in mi minore di Chopin. Nel 1975 supera il primo turno del concorso Chopin di Varsavia, già vinto dal diciottenne Pollini nel 1960. E, ancora, medaglie a Treviso, Trento, Barcellona. Un vero globetrotter. Nel suo carnet ci sono duemila concerti solo in Italia, e tanti altri in Spagna, Gran Bretagna, nell'ex Urss, nel 1982, a Leningrado (ora San Pietroburgo) e a Mosca. Gli mancano gli Stati Uniti, dove si è esibito una volta sola. Per una tournée un impresario americano gli aveva infatti chiesto 100 milioni di lire. Proposta rifiutata. I titoli dei giornali si sprecano in lodi e paragoni per Campisi, che è anche compositore e direttore d'orchestra. Quando esegue l'“Andante Spianato e la Polacca” di Chopin, «con gusto sicuro e rotondità di suono», scrive Repubblica nel 1983, «il modello è, evidentemente, Benedetti Michelangeli, ma assimilato benissimo». Per il Giornale (1985) «Campisi porta il piano al chiaro di luna. E Gershwin lo trasforma in un jazzista». Il jazz, appunto. Suona a Milano, ma, per un certo periodo, in Costa Azzurra, a Beaulieu, in trio. Qui, nel porto, aveva una barca attrezzata con un pianoforte speciale. È stato un periodo di grande fervore. Nel 2015, il problema al cuore e, due anni dopo, l’ingresso in piazzale Buonarroti. Infine, la rottura del femore, per una banale caduta. Il che non gli ha impedito, mentre era ricoverato all'ospedale San Carlo di Milano, di intrattenere i pazienti al piano. Maestro Campisi, qual è l'essenza della musica per lei? «La musica è soprattutto il suono». E i musicisti, chi sono? «Mi riconosco in questa descrizione di un giornalista del Los Angeles Times, David Ackert: “Gli artisti sono disposti a dare tutta la loro vita a un solo momento, a quella melodia, a quella frase, a quell'accordo o a quell’ interpretazione che toccherà l'animo del pubblico. Con il loro spirito creativo raggiungono il cuore”».