Oggi la vecchiaia «è un fenomeno di massa. Vecchi siamo tanti. Non facciamo più notizia», ha scritto la scrittrice Lidia Ravera in “Age Pride”. Venerata, detestata, o sabotata da un giovanilismo a oltranza, la terza età fa in realtà di continuo parlare di sé. Almeno da quando Kent Haruf ha raccontato l’amore adulto di un uomo e di una donna soli, coi figli lontani e gli amici distanti, che cominciano a passare insieme le notti (“Le nostre anime di notte”, NN Editore), la vecchiaia è diventata protagonista appariscente di film, libri, spettacoli. Ci sono arzille vecchiette come Berthe, serial killer del romanzo di Benoit Philippon “La centenaria con la pistola” (Ponte alle Grazie). E debutti in tarda età, come l’esordio di Jane Campbell che a 77 anni scrive il primo racconto, lo invia a The London Review of Books e diventa autrice di culto con un romanzo sfrontato e provocatorio intorno al desiderio che non è mai fuori tempo massimo (“Spazzolare il gatto”, Edizioni Atlantide). Persino Hollywood sembra aver accantonato l’ageism, discriminazioni per l’età, con dive mature più carismatiche che mai, da Meryl Streep a Isabella Rossellini. E lancia storie non su saggezze e solitudini condivise – alla “Marigold Hotel” – , ma su uomini e donne sull’orlo di una rinnovata vitalità, a cui tutto può ancora succedere (da “Book Club” a “Summer Camp” ). Dalla moda ai viaggi, dal lusso al divertimento, la vecchiaia è terreno di marketing e di conquista di un target curioso, fiero, attivo. Odiato, anche, quando non intende spostarsi di un millimetro dal suo posto (vedi “Vecchiaccia” di Fuani Marino, sull’intolleranza alla longevità).
«Non abbiamo più nulla di nuovo da dire: il nuovo è già tutto prenotato dai vecchi che vogliono ringiovanire»: Beppe Severgnini cita Leo Longanesi (in “La sua signora”) in apertura del suo ultimo libro, “Socrate, Agata e il futuro” (Rizzoli). E mette in guardia dal rischio di voler restare sempre uguali: «Il cattivo invecchiamento è prima di tutto un cattivo spettacolo. Bisogna indossare con eleganza la propria età», scandisce il giornalista e scrittore in questo suo libro sull’arte di invecchiare con filosofia, subito amato dai lettori e balzato in testa alle classifiche. Brillante memoir, analisi degli anni complicati in cui viviamo. E guida esistenziale con tanto di ironica promessa, “per non diventare anziani insopportabili”. «Don’t become an old bore, non diventare un vecchio barbogio: questo è l’imperativo».
Ma come? Come non essere ingombranti e neppure ridicoli?
«Di fronte agli anni che passano servono onestà e uno scatto mentale. Bisogna chiedersi quanto tempo ci resta e come vogliamo usarlo. Farsi domande, senza sottrarsi. Quando io sento uno dei miei coetanei dire: “A me della politica non frega più niente, di Trump, di Musk, dell’Europa... avverto un allarme rosso. Io dico: datti le risposte che vuoi, però continua a farti domande. Anche perché le cose per cui verremo ricordati non sono le cariche che abbiamo ricoperto e i successi che abbiamo ottenuto. Sono la generosità, la lealtà, la fantasia, l’ironia. La reputazione è la ragione per cui verremo ricordati. Ecco perché è importante farsi le domande giuste: occorre più coraggio per porre buone domande che per fornire buone risposte. Soprattutto a una certa età».
Domenico Starnone le pone attraverso l’ultraottantenne Nicola nel romanzo “Il vecchio al mare” (Einaudi): ha passato una vita a rincorrere il lavoro, ha amato, promesso molto e dato poco. Una mattina prende in affitto una casa al mare e si ritrova a parlare con una ragazza di vent’anni: non sarà la strada per esorcizzare il futuro ma lo specchio dal quale capire il suo passato.
«Alla nostra età serve frequentare persone intelligenti e luoghi belli, che porteranno idee fresche. Accettare che c’è un tempo per ogni cosa, e la generazione dei figli e dei nipoti ha bisogno di spazio e incoraggiamento. Serve capire che il fascino è inversamente proporzionale allo sforzo per conquistarlo».
Ravera, che è tornata a guardarsi indietro con “Volevo essere un uomo” (Einaudi), sembra farti eco a distanza: “La vecchiaia degli uomini può prendere la via della commedia. Personaggi possibili: il vecchio brontolone, lo sciupafemmine mai disarmato, il professore pensionato tra le nuvole, il burbero misogino”. A chi non vorresti assomigliare?
«All’egoista spaventato. Ma chiamiamo le cose con il loro nome: ho 68 anni, sono già un anziano. “Vecchiaia” e “anziani” sono ancora parole tabù specialmente nelle copertine dei libri: io ho voluto usarle entrambe. Un maschio italiano ha 81 anni di aspettativa di vita, dicono le statistiche. Allora, da 0 a 27 sei giovane, da 27 a 54 nell’età di mezzo, da 54 in poi sei anziano. Anzi, tecnicamente nella terza età».
Erri De Luca nel docufilm e nel libro che ha scritto con Ines de la Fressange la chiama “L’età sperimentale” (Feltrinelli). «Nessuno è stato vecchio prima di me», afferma: «La vecchiaia di chi mi ha preceduto non mi fa da modello e non mi prepara a niente». Davvero non ci sono modelli a cui somigliare?
«No, non sono d’accordo, credo che ci siano, e io ne cito due. Indro Montanelli, per cominciare. Sono stato un suo allievo e ho avuto con lui un rapporto molto diverso, perché a Il Giornale avevo soltanto 24 anni e gli davo del lei, a La voce gli davo del tu e al Corriere gli davo una mano. Però in quei 20 anni insieme ho visto chiaramente quanto fosse consapevole dell’età. A chi lo invitava a tornare al lavoro rispondeva: grazie, preferisco di no. Andarsene è un’arte e Indro la conosceva. L’onnipresenza, a una certa età, è segno di disperazione. Se accendi la tv capisci subito che per alcuni esserci è un ansiolitico».
E l’altro modello?
«Mio padre che ha vissuto quasi 100 anni ed è stato forse un papà migliore negli ultimi 15 di quanto lo sia stato in tutta la sua vita. Era un notaio molto impegnato, soprattutto quando ero piccolo. È stato un papà delizioso da anziano, affettuosissimo, perché ha accettato serenamente la sua età. Senza staccare la spina dai fatti del mondo: leggeva tutti i giorni Il Corriere della Sera e Il sole 24 ore, guardava i telegiornali, ma non andava a comprarsi la macchina sportiva e a colorarsi i capelli».
Noti che questa capacità di non cadere nella trappola dell'eterna gioventù è più femminile che maschile. Eppure Susan Sontag ci ha sempre messe in guardia: invecchiare è molto più faticoso per una donna che per un uomo (“Invecchiare: due pesi e due misure” in “Sulle donne”, Einaudi). Tu, invece, ci riconosci la capacità di recuperare libertà senza sfiorare il ridicolo.
«Secondo me sì. Io descrivo quello che conosco meglio, cioè il mondo maschile. Non voglio semplificare, però mi sembra che le donne abbiano un passaggio fisico più brusco e non facile dato dalla menopausa. Però, superata la burrasca, è come se trovassero una laguna più calma. Gli uomini non hanno il coraggio della burrasca e continuano ininterrottamente a nuotare in maniera convulsa. La burrasca vuol dire anche non saper fare i conti con questioni fisiche, con la perdita della capacità di attrazione».
Ma c’è, secondo te, una specificità italiana nell’invecchiare, oppure no, essendo uno stato universale?
«È un fatto universale, però alcune nostre caratteristiche con l’invecchiamento si rivelano. La vecchiaia è la macchina della verità. E quindi inevitabilmente mostra caratteri sia individuali che nazionali. Non avevo mai pensato prima d’ora a questa cosa. Però sì, credo che il nostro gusto teatrale nella vita quotidiana, la generosità, il senso estetico che esiste, la vanità, l’intuizione che è una bella cosa e l'improvvisazione che è una cosa meno bella vengano fuori in maniera evidente. Anche in un altro senso: ho l’impressione che non ci sia lo stesso ricorso all’alcol pesante e sistematico che vedo negli Stati Uniti».
Questo è il tempo delle domande. Quali risposte il tempo ti ha dato, cosa hai appreso?
«Che devo essere attento e governare questa fase della mia vita. Avere una moglie intelligente come Ortensia conta. La schiena è fondamentale, è una grande maestra di vita per tutti: non conosco un coetaneo a cui la schiena non segnali che non ha più 25 anni. Faccio un esempio: io ho sempre sciato, sin da bambino. A 50 anni sono sceso dalla Forcella del Pordoi in neve fresca: non è una pista, è un canalone di altissima montagna in cui non puoi permetterti di cadere. L’ho fatta, poi ho detto: “Mai più”. Oggi guardo il Pordoi, sono felice di averlo fatto. Però basta. Andrò a sciare, appena comincia, con la mia nipotina».
L’adorata Agata che compare già nel titolo e che dialoga con un busto di Socrate.
«Non è per caso nel titolo: senza Agata questo libro non ci sarebbe stato. Se il libro brilla è perché ci sono dentro la consapevolezza, la gioia, la vita, la forza di una bambina che ribalta tutto e cambia la prospettiva».
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L’ironia è per te la prima strategia antiage. Ma è come il coraggio, oppure si può imparare?
«È come la capacità di disegnare o di cantare o perfino di scrivere: certamente serve una predisposizione, ma credo che si possa anche apprendere. Io sono convinto che i miei anni in Inghilterra da giovane mi abbiano influenzato molto. E anche le letture che ho fatto: da preadolescente leggevo P. G. Wodehouse che mi ha dato la capacità di vedere e ridere delle cose assurde. Penso a certi film e serie tv come “Only Murders in the Building”, dove Steve Martin e Selena Gomez giocano sulla differenza di età; o “A Man on the Inside”, in cui il vecchio protagonista Charles fa l’infiltrato in una residenza per anziani; a “Il metodo Kominsky” con Michael Douglas sugli inconvenienti della terza età, a Hollywood. Anche le persone che frequenti certamente ti condizionano. L'ironia si allena, ed è l’antiruggine dell’anima».
Da una parte, dici, la vecchiaia è tempo di distacco dalle cose; dall’altra hai il museo del passato prossimo in soffitta. Che rapporto hai con la nostalgia?
«La nostalgia è come il vino, favolosa ma non bisogna esagerare. Va consumata con buon senso. Siamo circondati di cose con una loro storia, sono riserve psicologiche, l’importante è conservare l’appetito per il futuro – che è cosa diversa dall’essere affamato di futuro, propria dei ventenni».
Scegli una cosa, un oggetto che per te racconta e addensa emozioni.
«In questo momento io sono seduto a casa a Milano su una poltrona rossa: viene dal Teatro Colosseo di Torino. È la numero 22 della prima fila. Dieci anni fa c’era in quel teatro uno spettacolo tratto dal mio libro “La vita è un viaggio”, interpretato da Marta Rizzi. Su questa poltrona era seduto l’uomo che sarebbe diventato suo marito. Sono una coppia fantastica: mi hanno regalato la poltrona su cui lui era seduto quando aveva avuto la visione della sua vita».
Un gesto di gentilezza, una risorsa molto spesso sottovalutata.
«A una certa età diventa importantissima. Ci sono anziani che sentendo le forze fisiche e l’autorevolezza calare pensano di compensare alzando la voce, usando espressioni volgari, diventando più aggressivi. È l’errore degli adolescenti: diventano aggressivi perché insicuri. E gli anziani insopportabili. Nulla è più triste di un anziano che fa il vuoto intorno con la sua ira. Sono l’egoismo e la presunzione, non gli anni, che ci fanno invecchiare».