Il cancello di via Faruffini 5, a Pavia, s’è chiuso nel 2020. Lì, per 34 anni, “Spaziomusica” ha creato fermento in una città di nebbia e di università. Gli sono stati fatali lockdown e grane amministrative. «Non mi arrendo, però, all’idea che i giovani non possano sperimentare quel modo di fare e ascoltare musica». Daniela Bonanni parla da ex maestra e da fondatrice, con il compagno Bruno Morani, del piccolo live club. Un luogo «di incontri e incroci generazionali, di gente che suonava a un passo da te». Perciò lei ha lanciato sui social una raccolta di testi, immagini e video dedicati al proprio locale del cuore. Un Sos simbolico per voci che si sono spente o si stanno spegnendo in tutta la Penisola. Per insegne senza più indirizzo che, nei casi fortunati, sono ospiti altrove. “All’una e trentacinque circa” di Cantù, le “Scimmie” di Milano, “Il Locale” di Roma… Disseminate nelle metropoli e nella provincia, queste realtà si caratterizzano, tra le diverse attività, per l’offerta di musica dal vivo originale e sono state l’ennesima vittima del capitalismo applicato alla cultura.
«La crisi intreccia più fattori», spiega Federico Rasetti di KeepOn Live, associazione di categoria che rappresenta i club in Italia e nei network europei, «è difficile sia gestire quelli esistenti sia aprirne di nuovi, in primis per motivi economici. Ci sono costi fissi elevati, dalle bollette all’affitto, a fronte di una redditività bassa, tipica delle imprese culturali. Ecco perché Covid, inflazione e sfratti hanno colpito così duramente. Urge, quindi, riconoscere un ruolo a questi spazi». Nel 2022, infatti, è stata approvata una legge che delega il governo ad adottare misure per sostenerli e per valorizzare la funzione sociale della musica originale dal vivo. Ma le norme attuative e il Codice dello Spettacolo in cui dovrebbero confluire tardano ad arrivare. Intanto, s’inizia sfoltendo le autorizzazioni per gli eventi con meno di duemila partecipanti. «Entrano in gioco aspetti politici – continua Rasetti – servirebbero agevolazioni fiscali, canoni calmierati, burocrazia semplificata. E una mappatura nazionale dei live club; finora ne abbiamo contati dai 130 ai 180, ma è un lavoro complesso».
Occorre, poi, un’autocritica: «La gestione dei locali talvolta è affidata a persone che, anche per lo scarso ricambio generazionale indotto dalle note difficoltà, sono poco inclini al cambiamento. Diverso è per i festival, un mondo resiliente e più al passo coi tempi, con responsabili abituati ad allacciare rapporti con le istituzioni e a fare rete». Già, perché muoversi in solitaria significa essere stritolati dalle multinazionali. «Esiste un sostanziale duopolio (tra la statunitense Live Nation e la tedesca Eventim, ndr). Un sistema di scatole cinesi che si è impossessato del settore, partendo dal ticketing per scalare agenzie via via più grosse, organizzare rassegne con artisti seguiti dai propri manager e comprare persino i palazzetti in cui farli esibire; agisce secondo una logica finanziaria e ha drogato il mercato».
Se, da un lato, i megaconcerti sono ripresi dopo la pandemia registrando record di presenze e incassi, dall’altro, i live club medio-piccoli arrancano o sono costretti a scendere a compromessi sulla programmazione. «Per un decennio ho puntato sul jazz», racconta Massimo Genchi Pilolli che nel 1999 inaugurò la “Salumeria della musica” a Milano: «Poi i clienti sono diminuiti e ho dovuto fare scelte differenti. Nel 2018, sebbene gli affari andassero bene, ho deciso di chiudere. Ero stanco e non mi sentivo più appagato. Con l’avvento della tv commerciale il pop ha schiacciato ogni alternativa. E la Rai, le radio, la discografia si sono adeguate. Alcuni gestori, inoltre, non hanno capito che per essere competitivi e attrarre nomi importanti, italiani o stranieri, bisogna investire negli impianti, affinare l’acustica, ingaggiare fonici professionisti in maniera stabile. Oggi l’esibizione dal vivo si sta trasformando in una forma d’intrattenimento, solitamente associata alla ristorazione e gratuita».
Ma salvare i live club è forse una missione da nostalgici? «È un problema di qualità – riprende Rasetti – in passato, i talenti nascevano in questi locali. Facevano la gavetta, si confrontavano con chi li valutava, conquistavano il successo. Adesso il filtro manca. Compaiono figure poco preparate e sconnesse dalla realtà». Gli emergenti si buttano nel calderone di Web e social, sperando di diventare virali: «Soltanto i personaggi che fanno incetta di follower strappano un contratto a qualche produzione e non è un criterio meritocratico», aggiunge Genchi. Il risultato è un impoverimento della scena musicale che, di riflesso, smorza la curiosità del pubblico. Lo confermano i gestori di club che ancora resistono. «Le agenzie catapultano negli stadi cantanti mai saliti su un palco, ne gonfiano i compensi, li spremono per un po’. Sfornano meteore», commenta Fabio Schillaci de “I Candelai” di Palermo: «Per noi sono cachet troppo alti. Ci accontentiamo di coltivare una nicchia e di pareggiare i conti riempiendo la sala. Ho capito che non siamo più talent scout quando i protagonisti delle nostre stagioni sono transitati in blocco dal Primo Maggio e da Sanremo».
Eppure, nel sottobosco, c’è voglia di musica. «Le micro-agenzie soffrono l’assenza di un vivaio. Gli ascoltatori illuminati si rifugiano nelle proposte dei centri sociali. E gli stessi artisti sentono la necessità di ristabilire un contatto con la platea, di divertirsi», conclude Schillaci. Dalla Capitale gli fa eco Raniero Pizza del Monk, convinto che la ridotta capacità di spesa precluda l’accesso alla cultura a una larga fetta della popolazione: «I prezzi dei biglietti dei grandi eventi sono schizzati alle stelle. Per concedersi il concerto della star preferita, si rinuncia al resto».
Un circolo vizioso, insomma. Che Stefano Senardi, tra i principali produttori discografici italiani, inquadra: «Generi e interpreti omologati, dischi di platino a raffica. Mentre quasi nessuno sa suonare. È una bolla, è l’esasperazione del sistema. Al profitto immediato va preferito l’investimento di lungo periodo o non ci sarà futuro. La musica è un fuoco da alimentare, va insegnata a scuola». E nei live club, «luoghi di aggregazione che allontanano i giovani dalla strada». Presìdi di democrazia e di sicurezza del territorio. Per chiedere che siano tutelati, Senardi reputa «fondamentale creare un circuito: il prossimo aprile, con Officina Pasolini, Club Tenco e i premi più prestigiosi, riuniremo gli interlocutori pubblici e privati interessati. Come i Coldplay devolveranno parte dei proventi delle tappe britanniche del tour 2025 a un fondo per i locali del Regno Unito, sarebbe bello se pure i nostri big prendessero posizione». Intanto a Milano, nel suo “Germi”, Manuel Agnelli s’è inventato la rassegna “Carne fresca”: tre date al mese, fino a maggio, riservate a volti del rock. Rigorosamente sconosciuti.