Il mio è un romanzo “totale”, che unisce letteratura realistica e fantastica alla storia, scienza e politica. E ciò a beneficio del “grande lettore”, Dio». Così Mircea Cartarescu, il grande scrittore romeno, inizia a raccontare il suo ultimo romanzo: “Theodoros” (pubblicato da il Saggiatore, traduzione di Bruno Mazzoni). Che narra le avventure di un ragazzino romeno impossibile da educare, «e mosso da un’ambizione sfrenata, una voglia metafisica di potere», aggiunge Cartarescu, che abbiamo incontrato alla Fiera del Libro di Lipsia. Ma cos’è questa ossessione per il potere che a quanto pare muove il mondo? Cosa ha a che fare il miraggio del potere con la religione? E, più prosaicamente, in Romania e in Europa dell’Est qual è la reazione alla guerra e alle ambizioni della Russia di Putin?
Mircea Cartarescu, il suo eroe, Theodoros, nasce il 4 febbraio 1818 in un villaggio romeno e vive gli eventi e le guerre del secolo. È un romanzo sull’Ottocento?
«“Theodoros” è un romanzo pseudo-storico con un documentato background storico; ma è allo stesso tempo un’opera di immaginazione, di visione e poesia. Il mio obiettivo non era ricostruire la Storia, ma raccontarla in modo postmoderno e surrealista. Nel bel mezzo di vicende ambientate nel diciannovesimo secolo ho parlato di Coca-Cola e di meccanica quantistica, per assicurare il lettore che il mio romanzo epico non è la realtà, ma un prodotto del mio sogno letterario».
A narrare le vicende di Theodoros, infatti, sono gli Arcangeli che, dall’alto dei Cieli, sanno tutto delle azioni umane. Perché questa prospettiva celeste?
«Sono sempre stato affascinato dai libri la cui azione si svolge contemporaneamente sulla Terra, in paradiso e all’inferno, come l’“Iliade” di Omero, la “Divina Commedia” di Dante o il “Faust” di Goethe. Per questo ho immaginato per Theodoros una cornice teologica: gli Arcangeli devono scrivere rapporti su ogni essere umano, a beneficio di Dio e del Giudizio Universale. Bisogna essere un angelo per guardare, dall’alto in basso, al destino umano da una prospettiva etica e teologica».
Dal sud dei Carpazi il romanzo si sposta verso la Grecia e l’impero turco, e verso l’impero austro-ungarico. Uno dei soggetti del romanzo è dunque il Danubio, l’arteria degli ex Imperi centrali?
«Questa volta non ero tanto interessato al Danubio, come nella mia trilogia “Abbacinante”. Il grande fiume è qui solo il confine meridionale della Valacchia, un regno leggendario di ghiaccio e neve, governato dal generale Inverno. Il mio eroe lascia il suo Paese all’età di 19 anni, attraversando il Danubio verso il nulla. Porta con sé solo il suo folle e divorante sogno di diventare un imperatore, come i suoi più famosi modelli Alessandro Magno e Napoleone».
Theodoros è un ragazzaccio con un’ambizione sfrenata: cosa c’è nella brama di potere che intriga tanto?
«Il male è sempre stato affascinante, perché rappresenta un estremo del nostro animo. Ancora più intriganti sono alcune persone molto cattive che hanno dei talenti e amano persino i loro amici. Il cuore umano è un abisso, e i più grandi scrittori, come Dostoevskij o Kafka, sono stati quelli che hanno osato scendere in quell’abisso e riemergere con poesie o romanzi di enorme potenza e verità. Ma l’arte non è manichea: non giudica né condanna. Flaubert non condannò Emma Bovary e chiese ai suoi lettori di non farlo, ma di avere compassione per lei».
Questi eroi maligni ci aiutano a comprendere il ventunesimo secolo, un mondo pieno di tiranni selvaggi con orrende dittature e guerre...
«Theodoros non è solo un essere umano, ma un archetipo. E tutti i tiranni del mondo sono incarnati in lui. Per questo credo che il mio romanzo sia uscito al momento giusto. Negli ultimi anni sembra che siano emersi molti Theodoros nel pianeta, anche nei Paesi finora più democratici. Sì, il nostro mondo è pieno di sinistre dittature, ma a differenza del mio personaggio, che è solo finzione, i veri dittatori devono essere condannati per i loro crimini, per aver umiliato le persone, per l’oppressione e la censura».
Alla base di tutti questi rigurgiti di odio e razzismi sulla scena globale c’è il virus del nazionalismo, che scoppiò verso la fine dell’Ottocento.
«Essere nazionalisti era positivo nel diciannovesimo secolo, quando nacquero nuovi Stati nazionali. La maggior parte dei più grandi scrittori e poeti di quel tempo aveva un messaggio nazionalista. Ma essere un nazionalista radicale ai giorni nostri significa regredire, in realtà, alla visione obsoleta dell’Ottocento, abbracciare una politica reazionaria, a volte persino fascista. Oggi gli intellettuali dovrebbero parlare più di democrazia, diritti umani ed empatia tra le persone che di confini e sciovinismo. Il falso patriottismo populista che odia gli altri popoli è, come disse una volta Samuel Johnson, “l’ultimo rifugio del mascalzone”».
Lei racconta una catastrofe diplomatica avvenuta nell’estate del 1827 in Algeria, tra Hussein Dey Pasha, l’ultimo governatore ottomano di Algeri, e Pierre Deval, l’ambasciatore francese. Un banale affronto fra i due portò all’invasione francese dell’Algeria. Inevitabile pensare al più recente scontro, a Washington, tra Zelensky e il burbero Trump.
«Ottima osservazione. La Storia è piena di cause ridicole che hanno portato a massacri e tragedie. Nel caso che cita, la Storia è stata cambiata da una mosca che si posò sulla guancia dell’ufficiale francese! Ai nostri giorni, il mondo intero ha assistito al grottesco e vergognoso dramma alla Casa Bianca, quando un vero eroe è stato rimproverato da un autocrate come uno scolaretto. Zelensky che non indossava un abito è diventato un criminale agli occhi di Trump e dei suoi tirapiedi».
Torniamo alle imprese dell’invasato Theodoros che, dopo l’arcipelago greco, va a combinare guai in Etiopia. La scena si allarga quindi dal bacino della civiltà italiana, greca e turca al Nord Africa. A quella Europa che Alexander Kojève chiamava l’“Impero latino”.
«Theodoros è un insetto in continua metamorfosi: in Valacchia è un servo, addetto alle pipe del suo padrone. Nell’arcipelago greco un temuto pirata. E in Etiopia il Re dei Re, Tewodros II, tiranno sanguinario. Tutte fasi spinte da un’ambizione smisurata. Ma più che l’Impero latino, i viaggi del mio personaggio descrivono quello che un tempo si chiamava il Levante, la parte orientale dell’Europa mediterranea».
In “Theodoros” definisce l’ambiente di Bucarest «metà turco, metà europeo, che non ti faceva sentire né a Parigi né a Istanbul». Non è questa ibridazione la bellezza e la sfortuna di Bucarest, dei Carpazi e forse di tutta l’Europa dell’Est?
«Bucarest è una città strana. Bisogna viverci per mesi, anni per sentire il suo fascino velenoso, la sua oscura bellezza. Anche Bucarest è centrale nelle mie opere, a volte la chiamo “un alter ego”. Sono orgoglioso di aver creato una città tutta mia diversa da quella reale, così come Borges ha inventato Buenos Aires, Lawrence Durrell Alessandria, Dostoevskij San Pietroburgo e Calvino le sue città invisibili».
Theodoros coronerà il suo sogno e diventa imperatore in Etiopia. Alla base di questo sogno c’è il Kebra Nagast, il testo della Chiesa ortodossa etiope. Perché ha scelto di riscrivere le storie di questo libro sacro?
«Theodoros è coinvolto in una ricerca mistica: la ricerca della firma di Dio sulla Terra. Questa missione lo porta a inseguire il manufatto più enigmatico dei tempi biblici, l’Arca dell’Alleanza, che si dice sia nascosta in un monastero in Etiopia. Così scopre che la regina di Saba, menzionata nella Bibbia, era etiope e andò a Gerusalemme per incontrare re Salomone. Nella Bibbia non si parla di una relazione romantica tra loro, ma Makeda e Salomone furono amanti nel Kebra Nagast, e il frutto del loro amore fu Menelik, il primo re della più antica dinastia del mondo, quella d’Etiopia. Sì, mi piaceva raccontare questa storia, una delle più belle storie d’amore di tutti i tempi».
In effetti nel romanzo si sente vibrare il fascino della religione, del misticismo e delle eresie, o mi sbaglio?
«Un libro che avevo in mente scrivendo “Theodoros” era “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez, che ha portato il mondo fantastico e lussureggiante di Macondo al pubblico occidentale. Volevo raccontare un mondo fantasioso come Macondo, e l’immaginario bizantino, i dipinti naif sulle pareti delle chiese ortodosse, lo strano linguaggio della letteratura encomiastica medievale potevano creare un universo letterario esotico come il Macondo di Marquez».
Il miraggio che Theodoros insegue è l’Arca dell’Alleanza tra l’uomo e Dio, in cui il popolo ebraico ha riposto i Dieci Comandamenti. È con queste Tavole che inizia la storia della trascendenza religiosa, e cioè il discorso etico e politico dell’Occidente?
«La cultura occidentale è stata costruita sugli insegnamenti di due persone che non hanno mai scritto nulla: Gesù e Socrate. Ma enormi biblioteche sono state costruite sulle loro spalle. Entrambi avevano un “daimon” che diceva loro cosa fare e dire. Sono sempre stato affascinato dai primi cinque libri della Bibbia, i libri di Mosè. La riunione del popolo ebraico con il suo dio e i suoi quarant’anni di vagabondaggio nel deserto è la più grande storia mai raccontata».
Già, ma il romanzo racconta anche l’invenzione del dagherrotipo, dei fiammiferi, delle penne a inchiostro, delle navi a vapore e degli ascensori. I suoi testi sono un cocktail di mistica e poetica, e di fascino per le scoperte scientifiche e le invenzioni tecnologiche.
«Non vedo alcuna differenza significativa tra scienza e magia. Arthur C. Clarke disse che “qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”. Uno smartphone sarebbe una cosa magica per una persona del diciannovesimo secolo. Ho molti hobby, la maggior parte dei quali legati alla scienza. Mi interessa la fisica quantistica, la biologia, l’embriologia, l’entomologia e tutto ciò che ha a che fare con il nostro cervello. Non solo la magia non può essere distinta dalla tecnologia, ma anche la poesia, il cuore della letteratura».
Theodoros è innamorato della principessa Stamatina, che lascerà la Romania per rifugiarsi a Vienna: «In cerca di riparo dai nuovi padroni della Valacchia, i russi». Oggi qual è il rapporto dei romeni nei confronti della Russia di Putin?
«La Russia è sempre stata una minaccia per i Paesi vicini, ma viviamo accanto a loro e non possiamo spostare il nostro Paese più lontano. Siamo abituati ad affrontare la minaccia russa, e per questo siamo così legati ai valori dell’Unione europea. Essere un Paese europeo è l’unico modo per proteggerci dal grande impero orientale. Noi romeni siamo dei sopravvissuti: siamo un popolo di origine latina, sopravvissuti fino al Medioevo a mille anni di caos storico. Poi siamo stati per 500 anni sotto il dominio dei turchi, e siamo sopravvissuti. In tempi moderni, siamo sopravvissuti a tre dittature fasciste e a una dittatura comunista. Anche se con molta fatica e sofferenze, sopravviveremo pure alla Russia di Putin».