Mai come oggi pensare all’architettura, intesa come senso dell’abitare, è diventato necessario, culturalmente imprescindibile per ognuno di noi: questione innervata nelle nostre vite quotidiane. A confermarlo è “Intelligens. Naturale. Artificiale. Collettiva”: la 19esima Mostra Internazionale di Architettura che si svolgerà a Venezia da sabato 10 maggio a domenica 23 novembre 2025 (pre-apertura 8 e 9 maggio) e sarà curata dall’architetto e ingegnere Carlo Ratti, uno degli studiosi più citati a livello internazionale nel campo della pianificazione urbana, co-autore di centinaia di pubblicazioni scientifiche, tra cui il recente “Atlas of the Senseable City” (scritto con Antoine Picon, edito da Yale University Press). «Per affrontare un mondo in fiamme, l’architettura deve riuscire a sfruttare tutta l’intelligenza che ci circonda», ha dichiarato Ratti presentando la rassegna.
La Biennale inaugura con un Public Program di conferenze dal titolo bellissimo: “GENS”. La parola con cui nell’antica Roma un gruppo di famiglie riconosceva un ceppo comune (la parola da cui deriva l’italiano “gentilezza”): qui l’origine che ci accomuna è l’abitare, la necessità di vivere in armonia con quello che abbiamo intorno a noi.
Ci saranno proiezioni, performance, workshop e conferenze; si amplieranno i confini dell’architettura per intrecciarla con altre discipline, dal cinema alla scienza, avviando una riflessione sulle forme dell’intelligenza e della progettazione di oggi nel nome dell’adattamento e alla co-creazione di conoscenza. Come la Baukultur (la cultura dell’edilizia di alta qualità) plasma l’ambiente? Come la mutazione climatica minaccia la città? Quali sono gli effetti della gentrificazione e come siamo chiamati ad affrontare la crisi abitativa creando alloggi inclusivi e sostenibili? Sono solo alcuni dei quesiti affrontati nelle conferenze (si può partecipare iscrivendosi dal sito della Biennale). Ma sono anche i grandi quesiti del nostro tempo e delle nostre vite.
Partecipare, come nelle intenzioni di Ratti, è più importante che mai, perché in un’era di adattamento la chiave è proprio collaborare, non solo con le istituzioni globali, le organizzazioni non-profit, i think-tank, le fondazioni, le università, ma tra noi cittadini, nel senso più classico del termine, più politico. «Il messaggio della Biennale Architettura 2025 è urgente: l’ambiente costruito deve adattarsi a un Pianeta trasformato, attingendo a ogni forma di intelligenza di cui disponiamo: naturale, artificiale e collettiva. Esploreremo tutto ciò insieme: architetti e ingegneri, matematici e climatologi, filosofi e artisti, chef e programmatori, scrittori e intagliatori del legno, agricoltori e stilisti», ha sottolineato Ratti. La chiamata alla partecipazione ha già in sé una proiezione politica.

Più di vent’anni fa, nel 2003, la Seconda Biennale di Valencia dal titolo “La città ideale” celebrava i vuoti architettonici provocati dal crollo dei palazzi (“ferite nel corpo della città”). Il curatore Lorand Hegyi parlava di riconversione degli spazi urbani marginali come micro-utopie contro la perfezione della città funzionalista. Gli spazi dimenticati – “vuoti” – delle metropoli come spazi di libertà, di condivisione e di produzione di senso dal basso. L’assenza delle istituzioni come opportunità per l’invenzione possibile. La celebrazione del vuoto di allora sembra l’antitesi perfetta di quello che viviamo oggi nell’era del capitalismo metropolitano pronto ad appropriarsi di ogni angolo possibile imponendo norme dall’alto.



La Biennale veneziana di quest’anno - concepita come una serie di conferenze altamente partecipate e di speakers corner, di luoghi insomma di condivisione - sembra rispondere a questa esigenza di creazione e formulazione di un’alterità rispetto all’omogeneità del funzionalismo urbano. La Biennale, cioè, come cantiere aperto di discussione – il cantiere nel suo senso anche metaforico è da sempre il luogo in attesa. Come diceva Marc Augé, i cantieri sono spazi poetici in senso etimologico «vi si può fare qualcosa; la loro incompiutezza contiene una promessa».
Nel notevole saggio di Sarah Gainsforth, “L’Italia senza casa” (Laterza), capiamo come la gentrificazione - diventata dagli anni Novanta una politica pubblica, al fine di costruire un’immagine di città attrattiva per i capitali privati – ha trasformato la casa da bene d’uso a bene di scambio, eliminando sistematicamente la parte sociale. Nella metropoli neoliberale tutta la vita è privata. Nel processo di gentrificazione «la forma è diventata fine a sé stessa e non un modo per collegare la sfera urbana a quella domestica». Alla metropoli neoliberale non interessa il miglioramento della vita degli abitanti, della gens verrebbe da dire. La trasformazione dei centri urbani in città temporanee di turisti e professionisti – insieme all’ansia del capitale di accaparrarsi ogni spazio edificabile – fa della città stessa un vuoto, ma diverso dalle rovine urbane come spazi di libertà: un vuoto di significato. La Biennale architettura allora si fa piazza dislocata di discussione sul nostro abitare.
In quest’ottica, spicca la conferenza che si terrà mercoledì 28 maggio: “European Cities Conversation on Climate-Responsive Urbanism and Architecture”, a Ca’ Giustinian nella Sala delle Colonne (dalle 10 alle 14). La conferenza riunirà vicesindaci e leader urbani di alcune delle principali città europee (tra cui Jules Pipe, deputato alla pianificazione e rigenerazione di Londra, e Maurizio Veloccia, deputato al piano urbanistico di Roma) per discutere sulla progettazione urbana in risposta al cambiamento climatico e alle sfide contemporanee. Molta attenzione sarà riservata alla crisi abitativa che attraversa sempre più città nel mondo, ma anche in Italia: a partire da Milano.
Il pensiero ritorna allora agli anni Settanta, quando l’architetto e artista Gordon Matta-Clark materializzava un’estetica della crisi urbana. Nel suo Fake Estates esponeva fotografie e mappe catastali di quindici appezzamenti urbani a New York. Denunciando ironicamente la speculazione del mercato immobiliare, i lotti risultavano essere interstizi irraggiungibili tra gli edifici. Sempre a New York, negli anni Ottanta, Group Material realizzò azioni che avevano l’intenzione di ricostruire la relazione tra individuo e comunità e di riconquistare spazi pubblici dentro la città. Nel 1980 venne occupato uno spazio nel Lower East Side, destinato a diventare un centro commerciale, e venne allestita una mostra che intendeva denunciare le politiche di gentrification. Le persone del quartiere vennero invitate a portare in esposizione qualcosa a cui fossero emotivamente legate. Con un obiettivo non diverso, il polacco Widiczko sfruttò i suoi studi di design industriale per progettare e realizzare rifugi e dormitori ambulanti per i senza tetto. Il suo progetto più celebre è del 1988 e si intitola “Homeless Vehicle”.

Alla Biennale Architettura 2025 non mancheranno i progetti sul clima: “The Next Earth Computation, Crisis, Cosmology” a Cannareggio e “The SKYWALK” by Platform Earth, allestita presso l’Ocean Space di Campo San Lorenzo. Uno dei centri pulsanti sarà lo Speakers’ Corner progettato da Christopher Hawthorne, Johnston Marklee e Florencia Rodriguez con l’obiettivo di mobilitare l’intelligenza collettiva su temi di cui siamo epigoni inconsapevoli dei movimenti che ci hanno preceduto. Non si può non pensare – rimanendo in Italia – alla protesta delle tende fuori dai campus universitari nel maggio del 2023: l’inaccessibilità della casa mina, tra le altre cose, il diritto allo studio e contribuisce al basso numero di laureati. L’assenza di politiche pubbliche e la progressiva cessione dello spazio urbano a utenti sempre più ricchi porta all’espulsione di tutti gli altri dalla città, compresi i ceti medi. Non a caso, il programma della Biennale includerà un incontro con l’ex Presidente della Camera Luciano Violante sulla parola “Domicidio”. Domicidio, ovvero la negazione del diritto all’abitazione: dunque l’annichilimento fisico, psicologico e sociale di individui e gruppi di persone. Nelle distopie di Ballard, il grande scrittore americano, la città diventa un vuoto grigio, origine di alienazione e non-senso, dove i condomini di lusso non hanno alcun contatto con le comunità locali. Per lui, e spesso nel tempo che stiamo vivendo, l’isola non è più l’utopia dell’uomo che modella la vita selvaggia, ma è l’isola di cemento che contribuisce all’impossibilità dell’uomo di avere una vita felice.

