Da un docente di Teoria della Letteratura non ti aspetteresti un libro dal respiro ferreamente politico, con una struttura da geometrico trattato proteso a indagare il presente in alcuni dei fenomeni più inquietanti. Ma Guido Mazzoni non è nuovo a imprese del genere. Già con “I destini generali” (2015) aveva dato prova della sua propensione a considerare la creatività della scrittura e la conoscenza dei meccanismi che muovono i grandi avvenimenti dei nostri tempi come campi da indagare insieme, scavalcando rigide partizioni disciplinari. Ed ecco questo testo dal titolo allarmante uscito da Laterza: “Senza riparo. Sei tentativi di leggere il presente”.
Mazzoni vi affronta questioni di bruciante attualità sulla scorta di un’autorevole quanto vasta bibliografia e di esperienze d’insegnamento in università di mezzo mondo, da Parigi a Londra, dalla Normale di Pisa a Siena, da Berkeley alla Columbia di New York. Il saggio è scandito da date periodizzanti: dal 1945 in poi si è svolta una guerra fredda durante la quale la contesa fra i tre grandi paradigmi che hanno pervaso il Novecento – il liberalismo, il comunismo e il fascismo – è stata dura e sanguinosa. Tutto sommato, sostiene Mazzoni, l’abbiamo seguita come spettatori o attori che si sentivano al riparo da esiti catastrofici.
Fu Italo Calvino, nel 1961, discutendo della società italiana all’inizio del miracolo economico, a riassumere in tale immagine una situazione che, nonostante difficoltà e timori, pareva al riparo da disastri. Forse era una visione drogata. Fratture non mancavano: basta pensare agli anni di piombo. Sia il sistema dei partiti sia il disciplinamento delle masse prodotto dalla fiducia in ideologie finalistiche contribuirono a governare i cambiamenti, giovandosi pure di un’apatica silent majority. Dopo il crollo del Muro di Berlino lo scenario cambiò su scala mondiale. All’altezza del 1992 apparvero due saggi, il frainteso “La fine della storia e l’ultimo uomo” di Francis Fukuyama e “L’illusione della fine o lo sciopero degli eventi” di Jean Baudrillard: esaltavano un passaggio contraddistinto in politica dal trionfo del modello liberale e da una globale dinamica liberista nelle relazioni economiche. La guida di un «Occidente collettivo» (Putin) sembrava garantire un futuro ricco di successi. Invece la crisi economia del 2007-2008 fu il primo avvertimento di un terremoto che avrebbe smentito fragili calcoli.
«La sensazione di essere al riparo è finita per ragioni economiche, demografiche, geopolitiche, ecologiche e tecnologiche», scrive il letterato non insensibile a premonizioni apocalittiche. La globalizzazione che certa sinistra temeva si traducesse in un potere omogeneizzante in grado di assorbire e livellare in un pensiero unico differenze e peculiarità, ha favorito il risorgere di orgogli nazionali e agguerriti sovranismi. Le conclamate regole che avrebbero mitigato, attraverso autorità e organismi di settore, l’aggressività dei mercati e impedito violenti neoimperialismi non hanno raggiunto l’incisività richiesta. La precarietà nel lavoro ha incentivato diffidenza e ostilità verso i ceti dirigenti, guardiani tecnocratici dello sviluppo promesso. Le leadership di Trump ha esaltato un primato isolazionista lasciando sola un’indebolita Unione europea: altro che la vagheggiata “potenza gentile”! I disperati flussi migratori, anziché essere accompagnati da lungimiranti programmi di accoglienza, hanno dato luogo a interminabili diatribe e quotidiane tragedie. La crisi ecologica e climatica non è stata assunta quale priorità. La pandemia del Covid ha dimostrato la difficoltà a battere flagelli di portata generale.
Le innovazioni tecnologiche fuori controllo inducono a sospettare una supremazia che annienti le libertà. «La fine del mondo è entrata a pieno titolo nel novero delle eventualità», è stato detto crudamente. Le guerre si sono moltiplicate e i lineamenti del modello di democrazia liberale si sono corrosi al punto di introdurre nel lessico corrente l’ossimoro di una “democrazia illiberale”, in atto perfino in Paesi europei. L’elenco sommario dei temi principali della fredda analisi di un saggio che rifugge da qualsiasi indulgenza non rende ragione di pagine acute, lontane da una critica intrisa di definizioni inadeguate a concettualizzare le sfide. Assimilare a un risorto fascismo le destre in ascesa è cavarsela non cercando di individuare gli elementi portanti delle contagiose visioni sul mercato. Ha prevalso una seducente privatezza anarcoide che ben poco ha a che fare con un totalitario statalismo etico.
E le personalità che hanno incarnato lo Spirito del Tempo – gli individui “cosmico- storici” li etichetta Mazzoni regalando loro una nobilitante categoria hegeliana – sono stati i Berlusconi e i Trump. Che non hanno inventato le modalità dell’egemonia vincente, ma hanno intuito la metamorfosi antropologica emergente. L’hanno interpretata e rappresentata costruendo “la grammatica del populismo contemporaneo”. Ne è scaturita un’interminabile guerra civile. È fuorviante separare in modo netto un populismo di destra da un populismo di sinistra e la stessa categoria di populismo esige distinzioni. Il filone di destra al governo in vari Paesi è squassato da contrasti componibili a furia di compromessi. Le versioni sinistrorse non riescono a contrapporre prospettive praticabili e trascinanti. Ha attecchito, almeno nel cosiddetto Occidente, la convinzione (non infondata) che un’alternativa non sia realizzabile. «Nessuno pensa che un altro mondo sia possibile, nessuno ci crede veramente», nota l’impietoso professore in una conferenza. Muta l’arredo ma quello è il Palazzo. E le rivoluzioni sono recitate: passive. Che fare? Mazzoni evita consolatorie vie risolutrici. Il suo è un libro che suscita domande e suggerisce confronti a carte scoperte.
