Novak in realtà si chiamava Marilyn. Ma quel nome negli anni ’50 era occupato. L’attrice americana, nota per i film di Hitchcock e Wilder, riceverà a Venezia il Leone d’oro alla carriera

Kim dalle mille vite

Sei un pezzo di carne, niente di più». La donna che avrebbe vissuto due volte, e molte altre ancora, se lo sentì dire da uno dei capi della major che l'aveva messa sotto contratto nel 1953 e se ne fece una ragione, anche se trovò l'espressione «un po’ scortese». All'epoca funzionava così e pur non avendo mai sognato di fare l'attrice Kim Novak pensò che tanto valeva saperlo. Un pezzo di carne a disposizione degli studios, che potevano anche “prestarsela” a vicenda.

 

Un pezzo di ragazza, come si dice ancor oggi, che fin dai suoi primi provini aveva rinunciato al suo nome di battesimo – l'avevano chiamata Marilyn, negli anni Cinquanta quel posto era occupato – ma aveva tenuto duro sul cognome, anche se faceva molto working class.

 

Così Kim Novak, a cui quest'anno la Mostra di Venezia assegnerà un Leone d'oro alla carriera, mosse i suoi primi passi a Hollywood all'insegna di una precoce duplicità. Sullo schermo era la biondona dagli occhi azzurri che faceva perdere la testa agli uomini. Ma sul set era l'ex modella arrivata al cinema per caso che faceva perdere la pazienza ai registi con le sue mille domande e la sua voglia di sapere, capire, insomma recitare, non solo farsi dirigere. Sfogliare per credere le memorie dei suoi “directors”: gente come Alfred Hitchcock (“Vertigo – La donna che visse due volte”), Otto Preminger (“L'uomo dal braccio d'oro”), Billy Wilder (“Baciami, stupido”, capolavoro censurato e misconosciuto), per citare solo i massimi. Una sfilza di souvenir ora ironici ora sarcastici su questa fissazione degli attori a voler capire cosa stanno facendo.

 

Eppure Kim Novak, 92 anni compiuti il 13 febbraio, con quello sguardo a volte attonito e quell'aria enigmatico-imbambolata che ispirò pagine taglienti a Oriana Fallaci nel suo reportage da Hollywood, ha vissuto una parabola singolare sotto ogni profilo. Come ricorda lo stesso direttore di Venezia, Alberto Barbera, fu una delle prime donne a fondare una società di produzione propria, nel 1958. Per non essere più pagata un decimo dei dei suoi partner maschili, certamente. Più in generale per sottrarsi alla morsa della Columbia, che attraverso il suo boss Harry Cohn, un simpatico tipetto che pare tenesse un busto di Mussolini sulla scrivania, vigilava su ogni momento della sua vita. Ma anche per procurarsi i ruoli che sognava, o almeno provarci, spezzando gli automatismi della fabbrica dei sogni. Come lei stessa probabilmente racconta nel ritratto dedicatole da Alexandre Philippe, “Kim Novak's Vertigo”, che si vedrà in anteprima mondiale a Venezia.

 

E chissà se il documentario riuscirà a forzare la gabbia in cui ha finito per chiuderla il culto persistente del suo film più venerato, “La donna che visse due volte”. Estraendo dall'ombra incombente di Hitchcock un profilo molto più ricco di quanto solitamente si ricordi. Non solo per meriti artistici – quando il grande regista inglese la vuole accanto a James Stewart per quel doppio ruolo fatale (e lo fa solo dopo aver incassato il no di Vera Miles, futura protagonista di “Psycho”. indisponibile perché incinta), Kim Novak aveva infatti già alle spalle una decina di film a volte di primissimo piano come “Picnic” o “Pal Joey”, oltre a un lungo sodalizio con un maestro della commedia come Richard Quine.

 

Ma soprattutto, in quel fatale 1958, era stata al centro di una vicenda amorosa che sarebbe difficile considerare “privata” e oggi brilla di una luce completamente diversa. Anche perché l'altra metà della coppia era Sammy Davis Jr., cantante, attore e ballerino afroamericano. Anche lui una superstar certo. Ma allora non era concepibile che la diva bianca di una major hollywoodiana si accompagnasse a una celebrità “black”. Anche se i due si erano incontrati al party di due divi ultrawhite come Tony Curtis e Janet Leigh.

 

E dunque: scandalo, gossip, articoli informatissimi anche se dei protagonisti si citano solo le iniziali. Intervento a gamba tesa dell'immancabile Harry Cohn, che incarica un gruppo di tagliagole di sequestrare Sammy Davis Jr. e abbandonarlo nel deserto (per fortuna non se ne fa niente. il cantante è nel giro di Frank Sinatra e ha le sue amicizie tra i clan). Fino all'epilogo due volte tragico. Al boss della Columbia viene il primo di una serie di infarti che finiscono per essergli fatali. Mentre Sammy Davis Jr., che prima va e viene dalla villa di Malibu dell'attrice nascosto sotto una coperta sul sedile posteriore dell'auto, poi progetta di volare a Chicago per chiedere la mano di Kim/Marilyn a suo padre, viene indotto a sposare un'anonima corista, anche lei bianca in verità, che ironicamente si chiama Laurie White.

 

Difficile dire come si sarebbe comportato il padre della diva, severo insegnante ed ex ferroviere di origine ceca che dopo i primi due film della figlia si era rifiutato di vedere i successivi. Ma questo amore così fuori dagli schemi testimonia una personalità molto più forte di quanto la parabola artistica di Kim Novak lascerebbe credere. A partire dai primi anni Sessanta, l'attrice che l'arrogante Harry Cohn sosteneva di «aver fabbricato per rendere nervosa Rita Hayworth», come ricorda sempre Barbera, dirada infatti le sue apparizioni fino a ritirarsi del tutto.

 

Tra i film dell'ultimo periodo, oltre all'incantevole “Baciami, stupido” di Billy Wilder, dove è una tenera prostituta di provincia che anziché sedurre a scopo ricatto il celebre cantante di passaggio (Dean Martin) si concede un breve amore con l'incauto mandante dell'impresa, un piccolo musicista in cerca di gloria, va ricordato almeno “Una strega in Paradiso” di Richard Quine, in cui lei e James Stewart sembrano replicare e forse parodiare i vertiginosi intrecci hitchcockiani.

Anche se il capolavoro scritto su misura per il maestro del brivido dalla coppia francese Boileau e Narcejac, resterà un chiodo fisso per la stessa attrice. Masochisticamente convinta di aver deluso Hitchcock, anzi di aver in qualche modo dato corpo, attraverso il doppio personaggio di Madeleine e poi di Judy, attraverso cui James Stewart cerca invano di “resuscitare” la prima, alla delusione del regista, consapevole di aver ripiegato su un'attrice che in origine non voleva. Non a caso, dopo quel film, Kim e Hitch non si sarebbero più visti. Difficile crederlo, considerando il culto tenace generato da “Vertigo”. Ma le vie del cinema (classico) erano e sono imperscrutabili. Anche per questo è così importante ascoltare con attenzione gli ultimi sopravvissuti di un'epoca ormai lontana. Prima che, anche per la Settima arte, l'era del testimone volga definitivamente alla fine.

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