Il ricordo di Goffredo Parise, compagno di una vita. L’amicizia con Ceronetti, De Luca, Garboli. I suoi quadri e le sue sculture. In visita nella fondazione di Giosetta Fioroni a Trastevere

Gios con tutti i suoi colori

Nel cuore della Roma più autentica, tra via della Lungara e via delle Mantellate, c’è via San Francesco di Sales, una strada stretta con i sanpietrini di Trastevere, Villa Lante e il verde del Gianicolo in fondo, le chiese e i palazzi non troppo alti dai colori pastello che ospitano abitazioni private, piccoli ristoranti, gli immancabili b&b e studi di vario genere. Quello di Giosetta Fioroni è poco distante dalla Casa Internazionale delle Donne, nascosto tra piante e automobili. Al mattino, il silenzio la fa da padrone e fa sembrare il rumore del traffico sul Lungotevere solo un ricordo. Suoniamo il campanello con il suo nome e cognome scritti a mano, entriamo e dopo un lungo corridoio ce la troviamo davanti. Eccola l’artista che come pochi altri ha saputo utilizzare e mescolare tra loro pensieri e parole, colori e emozioni, luci e ombre, stelle e comete, cuori e teatrini, il reale e ciò che non lo è. E, ancora, la storia con il fiabesco, la poesia con la letteratura, il cinema con la moda, il nero e l’argento, la pittura con la scrittura e la scultura.

 

Una donna che riuscì a formare un personale mondo artistico dove gli amici (Afro, Burri, Perilli, Novelli, Dorazio e tanti altri che vedeva tra piazza del Popolo e la galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis, Ninì Pirandello e Giorgio Franchetti, luogo-motore di quel dinamismo), la loro arte e la sua crearono un antidoto perfetto contro una società basata sulla negazione e la rimozione di quanto era (ed è) “altro”, sia in genere che in etnia, sia in sesso che in colore. «Questo studio l’ho acquistato nel 1992 da un fotografo, ma l’ho riorganizzato a mio modo», ci spiega. Da qualche mese è diventato anche la sede operativa della Fondazione Goffredo Parise e Giosetta Fioroni, «nata nel 2018 dalla forte volontà che ho sentito di tutelare la personalità intellettuale e artistica del mio compagno di vita e allo stesso tempo di unire i nostri percorsi lavorativi in un sodalizio virtuoso all’insegna dell’organicità e della valorizzazione», precisa lei che ne è presidente onorario (a presiederla c’è Davide Servadei). Parla restando seduta su un divano rosso che oggi, nel mondo del design, definirebbero rosso “scarley”. 

 

Lì sopra, la sua giacca nera in velluto spicca ancora di più. Ci fissa negli occhi, ci stringe la mano, ci manifesta affetto e quando non ce la fa più, ci pensano la direttrice della Fondazione, Giulia Lotti, e l’inseparabile assistente Tristan Panustan, a tranquillizzarla «perché loro sono per me casa», dice più volte. Notiamo che ha una spilla rosa a forma di cuore, che è poi un suo simbolo. Negli anni ne ha disegnati tanti, in ogni forma e colore, anche per Parise, che poi lo scelse per il suo “Sillabario n.1” (Einaudi), il cui poster è appeso sulla parete di fronte a noi insieme a quello di una mostra che lei fece a Parigi nel 1965 nella storica Galerie Breteau in rue Bonaparte, a Saint Germain-des-Prés. Vicino a un tavolo pieno di bombolette c’è una tela nera. La scritta in rosso “Gios”, conferma la sua anima rock. Ci avviciniamo alla grande scultura che riproduce un teatro (esposto alla Biennale di Venezia del 1993), altra sua grande passione, da lei spesso rappresentato in miniatura. La scritta “Il ragazzo morto e le comete” omaggia l’omonimo romanzo che Parise pubblicò per Neri Pozza nel 1950  (di recente da Adelphi), quando aveva solo vent’anni. Appoggiati quasi all’esterno, ci sono un cavallo a dondolo nero e dorato, altri quadri e cinque sculture a forma di mano. Alzando lo sguardo, notiamo “Gli involucri”, un suo quadro del 1966 che è un multi-ritratto di Marina Ripa di Meana. Lo stesso è stato scelto per la cover della preziosa monografia pubblicata da Skira che Germano Celant dedicò a Fioroni, ripercorrendo la sua vita.

 

Gli raccontò di essere nata a Roma la vigilia di Natale del 1932 da Mario Fioroni, scultore, e da Francesca Barbanti, pittrice e marionettista. «La fisionomia della sua arte fu virtualmente delineata già da allora, ma divenne operazione vera quando, dal 1957, le apparizioni visive si intrecciarono con la sua vita», scrisse Celant: «Ad avere la meglio è stata la sua capacità di porre, senza entrare nell’autobiografico, l’identità e l’individualità».

 

Continuiamo la visita, ed ecco comparire altre tele degli anni Cinquanta, i lavori legati alla letteratura degli anni ‘80-’90, gli enormi quadri degli anni Duemila (“Il Ramo d’Oro”), le ceramiche, le opere del gruppo degli Argenti degli anni ‘60, il suo colore preferito, ribadito di recente anche a Torino, dove la GAM le dedica un omaggio proiettando i suoi film nell’ambito dell’esposizione “Seconda Risonanza” curata da Elena Volpato. Al primo piano, dove c’è l’archivio, si raggiunge il giardino dove c’è la scultura in ceramica rossa di Giacinto Cerone, l’unica opera non sua. Torniamo al piano terra per soffermarci ad ammirare il “Muro della Memoria”, con foto e dediche dei suoi amici più cari, tra cui Erri De Luca, Cesare Garboli e Guido Ceronetti, ma soprattutto la “Stanza delle Acque”, la sala-studio da bagno progettata da Luigi Scialanga, un luogo orientale e onirico insieme circondato da pareti che sono come dei fogli dove scrivere e raccontarsi a sua volta, ricordare ed essere ricordata come vorrebbe lei, «sempre attraverso il mio lavoro». Un addormentarsi che è poi un vivere, come leggiamo in una sua scritta sulla parete: «Entro il dolce rumore della vita».

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