Cultura
31 luglio, 2025Una bambina che scopre la vita passata del genitore. La paura, la confusione, la vergogna. E il peso di dover fare domande scomode, anche a se stessi. La storia di Agnese Pini in un libro
Per un giornalista, fare delle domande è una pratica quotidiana, connaturata al proprio mestiere. È un’azione al servizio del pubblico, necessaria per diffondere e far conoscere notizie e informazioni che possono interessare la comunità nella quale si vive. Che sia accompagnato da telecamera e microfono o da taccuino e penna, un giornalista deve essere sempre pronto a chiedere una spiegazione, a insistere per scucire una risposta che l’interlocutore non vuole dare e a incalzare se necessario.
Imparare a domandare e a porre – e porsi – le giuste domande è invece un atto fondamentalmente intimo e personale. Agnese Pini, oggi direttrice dei quotidiani La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino e Qn, lo ha capito da bambina, un pomeriggio come tanti. A 13 anni, rovistando nei cassetti degli armadi a casa, trova una foto, tra gli album di famiglia, che ritrae il padre prima della sua nascita, con una tonaca da sacerdote. Così – racconta ne “La verità è un fuoco” edito da Garzanti – quando i genitori tornano a casa, fa la domanda più difficile della sua vita, come la definisce lei stessa: «Papà, è vero che eri un prete?». Oltre un quarto di secolo dopo – oggi ha 39 anni – ha deciso di raccogliere il suo smarrimento dell’epoca in un libro autobiografico. «Per molto tempo ho pensato di non avere un’alternativa. Il fatto di non dirglielo era una scelta che proprio non avevo preso in considerazione», confessa Pini a L’Espresso.
Una materia sensibile e incandescente, come dimostra la genesi editoriale dell’opera. Un lavoro difficile, faticoso, che ha richiesto all’autrice un profondo scavo dentro di sé. Nelle primissime pagine è descritto tutto il travaglio interiore vissuto e la difficoltà nel cominciare a battere le prime righe. «Oggi ho 39 anni e voglio scrivere un libro su di lui (il padre ndr), e non glielo so dire. Ogni volta che ci provo le parole restano sul filo delle labbra, le domande incatenate, la voce agganciata al fondo dello stomaco, dolorosa e impotente. Allora, persa nella mia inettitudine, lo contemplo con la dolcezza che si riserva agli anziani e ai bambini in egual misura, quando li amiamo molto e li sentiamo fragili, anche se sappiamo bene che sono le nostre fragilità, e non le loro, a farci tremare».
Al centro anche una questione etica di importanza dirimente: quanto abbiamo il diritto di appropriarci delle storie altrui? «Era un dubbio che mi pesava. Io – spiega ancora Pini – avevo questo enorme desiderio da tempo, che era anche il desiderio di parlare e confrontarmi con loro, dopo tanti anni dalla mia scoperta». Un dialogo che si nutre necessariamente della parola: «Mi sono sentita così figlia, così impotente di fronte ai miei genitori. Dovevo raccontare anche la loro verità, ma mi mancavano le parole. L’aspetto che trovavo più complesso è che era sempre inafferrabile, non sentivo di trovarla, non era mia. In parte mi è ancora inaccessibile. Allora ho capito che la soluzione non è ambire a raccontare la loro verità, ma la mia».
E la storia che Agnese Pini plasma, frugando dai più intimi scrigni della propria memoria – quelli che si aprono raramente e con il rispetto che si dedica ai momenti che riconosciamo fondativi per la nostra vita – è quella di una tredicenne che si confronta con sensazioni difficili da digerire, ma con le quali bisogna convivere. «Il sentimento più grande era la vergogna, la vergogna riflessa. Se c’è un segreto è perché c’è qualcosa che devi nascondere, di cui ti devi vergognare. Un lato oscuro di te che non puoi dire. Ho visto mio padre vestito da prete e l’ho visto in dei panni incompatibili con l’essere genitore. Non erano e non potevano essere due figure sovrapponibili».
Un sentimento umano e comprensibile che nasconde la paura di non essere accettati dalla società. «L’amore che ha portato mio padre a prendere decisioni così radicali – riflette la scrittrice – ti rende vulnerabile. Lui ha lasciato il sacerdozio per amore di una donna, mia madre. In questi casi anche la percezione del giudizio altrui ti fa sentire scoperto. Quindi tendi a nasconderti, anche per protezione delle persone per cui hai fatto questa scelta». La vergogna è il sentimento che fa aleggiare la sua presenza su tutto il libro, tanto da diventare un vero e proprio personaggio dell’opera. Definita “il mondo che guarda” – così l’autrice chiamava questo sentimento da bambina – è presentata come una divinità «perché non la controlli e non ha un nome. La folla è sempre indistinta, è una massa in cui non riconosci i volti. Lo vediamo oggi, quotidianamente, sui social. Il mondo che guarda è una forza che incute timore, anche se ne hai solo la percezione. Anche in un episodio come la morte di Gesù, una pietra miliare della cultura occidentale, la folla ricopre un ruolo importantissimo. Noi siamo consapevoli che è innocente, ma muore nel modo più umiliante, tra le urla di una folla che lo giudica colpevole. Tutti nella vita ci siamo sentiti e ci sentiremo come uno degli attori di questa storia: Ponzio Pilato, Giuda, i soldati che giocano ai dadi, anche Gesù che viene crocifisso. Questa consapevolezza ti aiuta a rimettere tutto a posto, a relativizzare».
Al centro del libro c’è infine anche il coraggio. Una qualità che lega il racconto a doppio filo con la professione che l’autrice ha scelto: «È questo – conclude Agnese Pini – il potere che abbiamo, come giornalisti. La verità che ci rende liberi non è quella delle risposte, ma nello spazio che concedi alle tue domande. Questo è il cardine del nostro lavoro».
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