Cultura
11 settembre, 2025Il regista Albert Serra ha seguito per due anni Andrés Roca Rey, divo della tauromachia. Per una serie di corride. Da non perdere
Chi sullo schermo preferisce ancora la brutalità del mistero alle certezze della sceneggiatura, non perda questo primo film “dal vero” del catalano Albert Serra, uno dei grandi del cinema d’oggi anche se da noi di suo si è visto solo il labirintico “Pacifiction”. È una spedizione nel mondo infero delle corride condotta seguendo per due anni Andrés Roca Rey, peruviano, 28 anni, divo della tauromachia di aspetto gentile e letale efficienza. Che Serra assedia al teleobiettivo prima, durante e dopo una serie di corride fra Siviglia e Madrid. Guardandosi bene dal giudicare per far parlare le immagini, da cineasta-antropologo che si immerge nel (nostro) passato barbarico iscrivendolo nell’orizzonte del sacro, dunque del sacrificio.
Le inquadrature sono sempre parziali, a escludere il contesto per interrogare la materia bruciante del rito. Immagini ravvicinate dunque, ma sublimate e straniate, anche se non per questo meno terribili (ci vuole un po’ di stomaco). Niente interviste, zero informazioni, solo le voci e i gesti sempre uguali dei suoi adoranti collaboratori, picadores, banderilleros, aiutanti, come quell’omone che solleva da terra Roca Rey per infilarlo nel costume sgargiante come una spada nel fodero. Ma soprattutto lui, il torero, che sfida ogni momento la morte, sfuggendovi spesso per miracolo, sapendo che in quel rischio abitano tutta la bellezza e l’ignominia di questo spettacolo arcaico e oggi spesso proibito nella stessa Spagna. Spettacolo che “Pomeriggi di solitudine” scandaglia dividendosi tra uomo e animale, tempi morti e facce feroci (tra il teatro No e i guerrieri Maori), coreografia rapinosa e versi belluini (del matador, il toro resta silenzioso anche nel momento estremo, che Serra non ci risparmia).
Non serve insomma aver letto Bataille o Leiris. Questa “microfisica della corrida” fornisce ogni elemento utile per capire non solo il fascino e la violenza dello spettacolo ma il senso profondo, quasi metafisico, di una sfida che non rimuove la morte, come accade nel mondo industriale, ma la ritualizza, la condivide, la celebra. Le facce che si intravedono sugli spalti, i commenti che costellano le esibizioni, tripudio di machismo e filosofia spicciola, l’adorazione che il suo seguito tributa a Roca Rey, sono inquietanti. Ma Serra non cade mai nella trappola della denuncia. Non ne ha bisogno. Senza sesso e senza colpa, il torero è un dio vivente, un re ancien régime (tra i primi film di Serra figura “La morte di Luigi XIV”). Ma ancora incredibilmente contemporaneo. In sala solo dall’8 al 10 settembre. Da non perdere.
AZIONE! E STOP
Nessuno è “Profeta” in patria. Infatti, strano ma vero, a girare la serie ispirata al celebre “Un prophète” di Jacques Audiard, appena vista a Venezia, non è stato un francese ma Enrico Maria Artale, uno dei migliori nuovi registi di casa nostra. Chissà se i tanti che hanno detto “no grazie” a Parigi l’hanno fatto per rispetto o superbia.
Venti volte Truffaut. Da “I 400 colpi a “Finalmente domenica!”, quasi tutti i film del mai troppo rimpianto regista francese, più qualche prezioso corto, tornano restaurati in sala (e non solo) grazie a I Wonder Classics. Che li proporrà anche nelle scuole. Evviva! Pensate che meraviglia se succedesse con i classici del cinema italiano.
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