Cultura
18 settembre, 2025Articoli correlati
L'Osservatorio sul romanzo contemporaneo dell'Università di Napoli Federico II ha chiesto agli studenti di riflettere sui temi ricorrenti nella narrativa di oggi. Ne proponiamo una selezione
Il corpo, la morte, il senso di precarietà. Il romanzo è specchio delle fragilità di oggi. E una chiave per attraversarle. Dopo l'intervento del professor Francesco de Cristofaro, docente di Letterature comparate, la voce degli universitari.
“LA STRADA” DOVE IL MALE VINCE SEMPRE CONTRO IL BENE
“La vita non è se non in movimento” scriveva Michel de Montaigne nei suoi celebri Saggi e il periodo che stavo vivendo, quando ho scoperto “La strada” di Mc Carthy, era di generale impigrimento, quell’immobilismo che tanto ho odiato in questi anni e che mi ha sempre condotto lontano dalla bontà e da quegli spiriti puri per cui, fin da piccolo, ho sempre mostrato estremo fascino.
Avevo bisogno di una medicina, di qualcosa che comparisse nella mia vita e un po’ me la stravolgesse: come nelle grandi storie, ecco comparire “La strada”.
In universo inorganico e plumbeo muovono i loro passi due personaggi di cui non conosciamo il nome, un padre e un figlio - saranno indicati così per tutto il corso della narrazione - due uomini che sono l’uno la ragione di vita dell’altro in un mondo in cui il patto sociale ha disertato la guerra della civiltà.
Empatizzare con loro è davvero molto semplice, Mc Carthy lo sa e molto spesso le lacrime scendono davvero senza accorgersene, ma tra di loro non c’è quell’amore tra genitore e figlio di cui tanto si sente la nostalgia quando si cresce o la mancanza se non lo si è mai provato. Materiale il padre, trascendentale il figlio, i dialoghi sono scarni, rapidi, le risposte sono brevi e le domande ripetitive così come lo sono i paesaggi desolati in questa Terra in cui di umano è rimasto davvero poco.
Non è tutto perduto però perché c’è quel bambino, il “figlio”, che è uno dei personaggi letterari più potenti che abbia mai incrociato sulla mia strada da lettore
Tutto sente, anche ciò che il padre non vorrebbe che interiorizzasse, tutto vede, anche se con le manine cerca di proteggere i suoi occhi dal marcio e dal perfido.
Quel bambino non è figlio del mondo che noi conosciamo, di quei valori egli non conosce nulla, e se il padre rappresenta una memoria di valori convenzionali e individualistici, il bambino è una sorgente di virtù fondata sul bisogno di non cedere mai alla malvagità, di non smettere di essere buoni nonostante tutto ciò che lo circonda. Se il padre è disposto a qualsiasi cosa pur di mettere in salvo se stesso e suo figlio, il bambino si fa carico del destino del mondo: il padre pensa a lui, il figlio pensa a tutti gli altri.
“Non tocca a te preoccuparti di tutto.”
Il bambino disse qualcosa che l’uomo non capì. “Cosa?” disse.
Il bambino alzò gli occhi, il viso sporco e bagnato. “Si, invece”, disse. “Tocca a me:”
È proprio in quel punto che “il figlio” svela la sua funzione salvifica: lui è l’ultima speranza dell’umanità, o almeno di quello che resta.
E questo ruolo lo assume in maniera impeccabile, capace di un’etica che è quella di Paolo di Tarso, colui che “tutto spera e tutto sopporta.”
Il finale darà al bambino la risposta cercata disperatamente per tutto il romanzo attraverso una continua e angosciante domanda rivolta al padre: “Siamo davvero noi i buoni?”.
Le righe finali sembrano confermare che in un mondo immerso nella spietatezza e nella malvagità esistano ancora i buoni e tuttavia nel paragrafo che chiosa il libro il messaggio è un altro:
“Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini […] Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti. Di una cosa che non si poteva mettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero.”
Un male incontrastabile in un universo così umano e quindi crudele, in cui anche l’unico Agnello del mondo è destinato a fallire.
Di Gianni Abate
“L’AVVERSARIO” RESTA NEMICO ANCHE QUANDO SOFFRE
Quando Carrère decide di raccontare la vicenda di Jean-Claude Romand, assassino di moglie e figli, come lui stesso dice, si ritrova nel gravoso problema di scegliere su quale prospettiva impostare la narrazione; la prossimità del caso e l’entità della tragedia contribuivano a rendere la vicenda inapprocciabile dall’interno, ma al tempo stesso qualsiasi pretesa d’impersonalità sarebbe risultata affettata. Carrère è scrittore, ma anche marito e padre, e la mostruosità commessa da Romand, seppur trattata con l’interesse e l’intendimento di chi ha la volontà di capire, nell’indagine non ne viene sdilinquita. L’avversario rimane tale, il nemico, anche se difficile da inquadrare, non viene inghirlandato da un licenzioso romanticismo. Pericolo, questo, che spesso si corre quando si parla del male, non solo quando è protratto, ma specialmente quando è subìto. Perché Carrère, andando contro ogni epistemologia di cronaca, non ricerca la verità nella mano che si è macchiata di parricidio – crimine visto dai Romani come una specie di corruzione per la società – ma nella testa di chi per anni ha vissuto nella più assoluta solitudine, e di chi ha visto vivere e prosperare nei suoi panni un fantoccio di vetro.
Di Antonio Romano
CORPO TI AMO, CORPO TI ODIO
La corporeità è una delle molteplici radici della letteratura. Non si può descrivere né narrare nessuna esperienza senza includere (anche implicitamente) il corpo; noi siamo corpo, esso è il nostro contenitore infinito, l’involucro che ci trasporta attraverso la vita.
La letteratura contemporanea ci offre diverse chiavi di lettura del corpo. Vi è chi gli attribuisce una specie di innata sacralità, come Robert Baden-Powell: “Fate comprendere al ragazzo il concetto che a lui è stato dato un corpo meraviglioso, da custodire e sviluppare come opera e tempio di Dio”; in opposizione, vi è chi lo percepisce come un ostacolo, marcio e insuperabile: “Precipitare nell'umano – che parola schifosa – questa è la disavventura. Gli anatomisti gridano al miracolo quando parlano del corpo umano. Ma quale miracolo?! Un'accozzaglia orrenda, inutilmente complicata, piena di imperfezioni e di cose che si guastano”, scrive Carmelo Bene. In questa seconda interpretazione rientra sicuramente Yeong-hye, la protagonista de “La Vegetariana” di Han Kang. Ci troviamo davanti ad una figura il cui corpo diviene uno strumento per esprimere il rifiuto totale delle convenzioni sociali e l’alienazione da tutto ciò che è umano. In “Gomorra” di Roberto Saviano, invece, il corpo è l’ennesima merce nell’universo della criminalità organizzata; viene scrutato, valutato, venduto, soprattutto ammazzato.
Abbiamo anche un dipinto letterario del corpo quotidiano, come in “Normal People” di Sally Rooney. L’autrice ci presenta due corpi che esprimono disagi differenti, vittime di traumi generazionali perlopiù irrisolti, ma sono anche due corpi capaci di amore profondo, che irrimediabilmente si intrecciano e trasformano reciprocamente. Come ci mostra Teresa Ciabatti in Sembrava bellezza, la rabbia non offre a nessuno una via d’uscita, ed è ciò che accade a Jean-Claude Romand, la cui storia è raccontata ne L’Avversario di Emmanuel Carrère: tutta la rabbia, il dolore e il risentimento intrappolati nel suo corpo per anni finiranno per impadronirsi di tutta la sua vita, conducendolo ad un tragico epilogo.
Infine, inserendosi in uno spirito di lotta transfemminista, vi è il corpo che Annie Ernaux ci presenta ne “L’Evento”: il suo. Un corpo che vuole a tutti i costi rivendicare la propria autonomia attraverso l’aborto volontario, e la donna a cui questo amato e vissuto corpo appartiene ne scrive anni dopo per ricordare al mondo che se il corpo è tuo allora solo tu puoi decidere cosa farci e come farlo; “Se non andassi fino in fondo a riferire questa esperienza contribuirei ad oscurare la realtà delle donne schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo”.
Di Marcella Cacciapuoti
LA MORTE È NESSUNO IN PARTICOLARE, MA IN OGNUNO DI NOI
Kafka diceva che un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio dentro di noi. “Everyman” di Philip Roth incarna perfettamente questa immagine. È un libro dissacrante e spietato che racconta l’inevitabile epilogo della vita di ognuno partendo dalla fine: la sepoltura. Eppure, in questo momento così intimo, così personale, dove gli affetti si stringono nel dolore per l’uomo che è stato padre e fratello, c’è qualcosa che stona, un protagonista che già dal titolo ci appare privato del nome, la sintesi ultima della nostra identità più profonda. Se nella Bibbia nominare le cose e gli animali serve a farli esistere, privare qualcuno del suo nome significa relegarlo all’oblio; Roth, invece, deve rendere anonimo il suo protagonista perché possa accompagnarci nella scoperta dell’ultimo viaggio, Everyman non è nessuno in particolare ed è ognuno di noi, dal momento che tutti, prima o poi, faremo i conti con quell’ombra dolorosa. Si parla di malattia, di morte, di errori evitabili, ma catastrofici per i rapporti umani. Roth non offre soluzioni, in fondo, “la cosa più straziante è sempre la normalità, il constatare ancora una volta che la realtà della morte schiaccia ogni cosa” e allora l’unica scelta possibile è “tener duro e prendere le cose come vengono”.
Anche Joan Didion ci parla di morte e di lutto nel suo libro “L’anno del pensiero magico”, partendo dalla sua personale esperienza con la perdita improvvisa dell’amato marito John. Lo fa con un racconto struggente e di rara bellezza. A differenza di Roth, Didion non usa metafore e allegorie, qui ci sono date e luoghi esatti, fatti e diagnosi mediche, c’è un dolore che arriva senza preavviso e ci sono quelle domande che almeno una volta ci siamo fatti tutti, quando anche noi ci siamo trovati a vivere un anno del pensiero magico, continuando a rimuginare sul passato, forse sperando in un esito diverso. Abbiamo apprezzato abbastanza i momenti condivisi? Abbiamo fatto le scelte giuste? Ogni gesto, ogni pensiero può diventare una trappola, persino il dettaglio più insignificante può far riemergere ricordi che non possiamo controllare. “So perché ci sforziamo di impedire ai morti di morire: ci sforziamo di impedirglielo per tenerli con noi. So anche che, se dobbiamo continuare a vivere, viene il momento in cui dobbiamo abbandonarli, lasciarli andare, tenerceli così come sono, morti.
Che diventino la fotografia sul tavolo.
Che l’acqua se li porti via.”
Di Martina Serao
PERDERSI E RITROVARSI NEL LABIRINTO DELLA MENTE
Dubbi è ciò che “Solenoide” instilla, lentamente ma con forza. Non un romanzo che offre risposte, ma un labirinto mentale in cui perdersi è l’unico modo per ritrovarsi. Leggerlo è accettare un lento distacco dai sensi, un abbandono consapevole per lasciarsi trasportare nei mondi costruiti dallo scrittore-protagonista, in una casa-nave dove la parola è rifugio e vertigine. Mircea Cărtărescu scrive sull’orlo della follia senza mai caderci, come un equilibrista tra realtà e immaginazione. Non consola, ma accompagna. Scardina, ma non isola. Anche nella sua dimensione più assurda, onirica, perturbante, riesce a creare un legame sorprendentemente empatico con il lettore. E così, paradossalmente, “Solenoide”, pur essendo un romanzo sull’isolamento, sulla malattia dell’esistere, sull’impossibilità di appartenere al mondo, riesce a comunicare una forma di solidarietà esistenziale: perché qualcuno, da qualche parte, ha attraversato gli stessi labirinti interiori e li ha raccontati con parole capaci di smuovere anche ciò che sembrava muto.
Di Nancy Liccardo
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