La realtà non mi piace, quindi fingo che non esista. Un’Apoteosi di inconscio e di ottusità

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«Qui non c’è virus!». Un sorriso sfacciato e uno sguardo spavaldo accompagnano le parole del no-mask. «Qui non c’è virus! Dov’è? Dov’è? Tu l’hai visto?». Infatti, no - nessuno l’ha visto. Perciò si è detto che il coronavirus, così invisibile, impalpabile, quasi astratto, avrebbe rappresentato un pericolo ulteriore, potenziato. Perché sarebbe stato la fonte inesauribile di fantasie complottistiche.

Ma chi avrebbe potuto immaginare una rimozione così massiccia dopo più di trentacinquemila morti e un drammatico problema sanitario? Una rimozione esibita senza nessun pudore, ostentata fino a diventare la bandiera del nuovo partito trasversale No-Mask?

La parola d’ordine “post-covid”, che ha chiuso il lockdown, è stata interpretata non come l’inizio della coabitazione con il virus, bensì come il ritorno alla normalità. Faciloneria, frenesia vacanziera, semplice voglia di lasciarsi alle spalle quel che è accaduto. Certo, capita a tutti, ormai, di vivere una schizofrenia quotidiana: si dimentica il virus, come se non esistesse, per rammentarsene d’un tratto, in una sorta di ripetuto, amaro risveglio. Ecco la difficoltà. Ma non si può far nulla, se non indossare la mascherina e compiere quei gesti necessari per gli altri prima ancora che per se stessi.

Chi rimuove - ce lo insegna la psicanalisi - semplicemente rifiuta una realtà divenuta inaccettabile. Qui non c’è risveglio, non c’è coscienza; è l’apoteosi dell’inconscio, il trionfo degli istinti. «Il virus non c’è». Perché mi fa comodo così, perché «l’estate viene solo una volta». Ma la fenomenologia del no-mask, che ha molte facce, è molto complessa. Accanto a chi rimuove inconsciamente c’è chi si crogiola nella diffidenza, ma anche chi nega armato di certezze. I confini sono labili. Per non parlare poi di quei politici meschini, sovranisti incalliti, negazionisti del coronavirus che, un po’ ovunque nel mondo (e da noi in modo eclatante), seguitando a fomentare l’odio per gli stranieri, tentano di far leva sull’insofferenza alle regole anti-covid. «Il problema non sono i ragazzi che ballano, ma quelli che sbarcano», così Salvini. Il fine non troppo recondito è la chiusura immunitaria di una comunità passiva e sempre più depoliticizzata.

Qualcuno ha scritto che la responsabilità sarebbe delle istituzioni incapaci di comunicare con gli irriducibili della movida. Eppure tutte le più alte cariche, a cominciare dal presidente Mattarella, hanno parlato con chiarezza. Semmai si dovrebbe puntare l’indice su quei media che si fermano alle porte degli ospedali, che non raccontano il dolore, che non fanno vedere l’angoscia e il tormento di chi non riesce a respirare. Troppa fatica emotiva. E così si asseconda l’equivoco della morte anonima: si muore, ma è come se nessuno morisse. Tocca agli altri, non a me. E che dire poi dei talk show dominati da personaggi pagliacceschi, magari considerati intellettuali, che disprezzando pubblicamente la mascherina si fanno beffe di ogni senso civico?

Per una volta, però, diamo la responsabilità a chi ce l’ha. A quei cittadini che si sentono vittime, della casta, del governo, del complotto, che cercano smaniosi un colpevole, che urlano a chi porta la mascherina «siete un popolo di schiavi». Pseudopaladini di una fraintesa libertà che non guarda in faccia a nessuno, schiavi - loro sì - dei propri fantasmi elevati a dogmi. Triste menefreghismo, ottusità cialtrona, minorità civica. Ecco perché la rimozione è spia del grande problema culturale.

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