Non siamo ancora alla fine dell'outsourcing, ma la tendenza verso la delocalizzazione che ha dominato il mercato del lavoro statunitense nel corso degli ultimi due decenni si sta invertendo.
Gli esperti lo chiamano 'insourcing' o 'inshoring', a seconda che preveda l'investimento straniero negli Usa o il richiamo in azienda di fasi produttive che in precedenza erano state esternalizzate. In entrambi i casi però prevede il ritorno in America di migliaia di posti di lavoro che le aziende avevano spedito all'estero. E ad essere colpita dal richiamo non è solo l'India, già meta prediletta dei delocalizzatori, ma anche altri paesi emergenti come la Cina, il Vietnam e il Marocco.
A spingere l'industria americana a ritornare negli Usa è una serie variegata di fattori. Primo fra tutti la fase economica: il deprezzamento del dollaro nei confronti delle maggiori monete planetarie (comprese la rupia, il rublo e il renminbi) annulla o quasi il vantaggio economico che si otteneva dal delocalizzare. Se il dollaro debole è benvoluto dal turista europeo che vuole visitare gli Usa, lo stesso non si può dire per i lavoratori di località come Bangalore, Mumbai o Pechino, dove gli statunitensi negli ultimi decenni avevano creato milioni di posti di lavoro. E dal momento che il dollaro ha raggiunto i minimi storici nei confronti delle valute di questi paesi, il divario che separava il costo di un programmatore, mettiamo indiano, da quello di uno statunitense (dal 50 al 60 per cento in meno) si è improvvisamente assottigliato.
"Il tasso di cambio riduce la competitività di un programmatore indiano di oltre il 20 per cento", spiega Chad Fowler, autore del libro 'My Job Went To India: And All I got Was This Lousy Book'. "E a ridurre ulteriormente la loro competitività contribuisce inoltre un altro fattore: l'aumento dei salari indiani". Già: secondo stime di 'Usa Today', il maggiore quotidiano statunitense, dall'inizio del 2000 lo stipendio dei lavoratori indiani dell'alta tecnologia sarebbe aumentato a un ritmo annuale del 15 per cento, mentre parallelamente in America lo stipendio di un programmatore è sceso dai 90 mila dollari l'anno ai 50-60 mila attuali, e senza benefit. La rupia inoltre, solo nel 2007, è aumentata del 12 per cento. Una situazione questa che starebbe portando gli outsourcer statunitensi a domandarsi se il gioco vale ancora la candela.
"Quando il divario tra i salari era dell'ordine del 100-200 per cento, i datori di lavoro erano anche disposti a chiudere un occhio sulla qualità del lavoro che arrivava dagli uffici di Mumbai", continua Fowler, "ma adesso che la forbice è di qualche decina di dollari l'ora, la qualità del lavoro è tornata centrale. Nel caso di un software, ad esempio, se si deve correggere una porzione di programma negli Usa (eventualità non rara quando si ha a che fare con programmatori indiani e cinesi) si finisce col pagare di più e ci si mette di più a finire un progetto". Questo ovviamente si trasforma in una lievitazione dei costi di produzione: proprio quello che volevano in prima istanza evitare gli esternalizzatori.
Di questa nuova realtà si avvantaggiano ditte come la Synergroup Systems e la Atomic Object, due case di programmazione americane che offrono progetti chiavi in mano per un costo orario di 38 dollari a programmatore. "È una questione di differenze culturali", dice Carl Erickson, numero uno della Atomic Object: "In India i lavoratori hanno un concetto diverso dell'assistenza ai clienti. Anche il tasso di assenteismo è più alto. E quando i margini di guadagno diventano esili, come lo sono adesso, qualità e tempi di produzione diventano importantissimi. I nostri lavoratori rispettano i tempi e consegnano un prodotto inoppugnabile. Il manager saggio sa che per sopravvivere a una recessione quello che conta non è il margine di guadagno ma il rapporto col cliente".
Così di recente perfino due aziende indiane come Infosys e Tata Consultancy Services sono state costrette ad aprire dei call center in America (Fremont e Cincinnati) e a chiuderne alcuni di Bangalore e di Mumbai: "I clienti avevano cominciato a lamentarsi della qualità del servizio che ricevevano dagli operatori indiani", spiega Michael Collins, presidente della Mpc Management: "Adesso che la forza lavoro americana comincia a essere competitiva con quella indiana, è logico anche per loro trasferire alcune funzioni aziendali negli Stati Uniti".
Tra l'altro, a causa della disoccupazione, adesso l'impiegato medio dei call center statunitensi non è più un giovane alle prime armi. Anzi: è ultra quarantenne, nell'80 per cento dei casi ha studiato all'università e un buon 10 per cento è anche in possesso di una laurea. "Gli americani sono più esperti e producono risultati di miglior qualità", afferma Dan Blachaski, autore di diversi libri sull'information technology.
Ma il fenomeno non riguarda solo i software e i call center: ad esempio, aziende industriali europee come Bmw e ThyssenKrupp stanno aprendo nuovi stabilimenti in America, mentre a casa loro ristrutturano licenziando parte della manodopera. E il ritorno a casa di alcune funzioni produttive è stato adottato anche dai tre grandi di Detroit: Chrysler, Ford e Gm. Specie per la componentistica, prima esternalizzata soprattutto in Messico. Uno dei nodi contrattuali sui quali s'era bloccata la trattativa con i sindacati era stato per l'appunto quello di riportare in azienda mansioni produttive che erano state spostate all'estero. A svolgerle adesso saranno i lavoratori americani, impiegati a cottimo e che non godono nemmeno del welfare.