Il governo vuole cambiare il settore delle imprese solidali. E si scatena lo scontro interno. In nome del business
Confindustria già lo chiama «il quarto settore», per dire che quello conosciuto come «terzo» - il mondo della solidarietà e delle onlus - appartiene ormai al passato. Colossi della finanza internazionale accorrono, alla ricerca di nuovi campi da dissodare. Ci puntano i governi, per affidare a qualcun altro i servizi tagliati dalla crisi delle casse pubbliche. Arrivano gli istituti di credito, attratti da soggetti che - nonostante le apparenze - nel ripagare i debiti si rivelano spesso più affidabili di tutti gli altri. Persino i palazzinari, finiti i tempi di rendimenti a doppia cifra degli affitti, si accontenterebbero del 3-4 per cento che può venire dall’housing sociale, come si chiamano le moderne case popolari. Sanità e cultura, volontariato e filantropia, polisportive e assistenza sociale, servizio civile e alta finanza: per l’intero universo della solidarietà è arrivato il momento di cambiare definitivamente faccia, dando il via a una nuova corsa all’oro. Perché nel non profit, sta arrivando il profit.
Lo sparo di partenza l’ha dato Matteo Renzi, presentando la legge di riforma del Terzo Settore nella sua prima manovra finanziaria, quella degli 80 euro per intendersi. «Non dobbiamo dire “uh che carini quelli del Terzo settore”, ma “il Terzo settore crea lavoro”», aveva detto il premier.
E il lavoro, in effetti, il mondo solidale lo mantiene più degli altri: con un aumento degli occupati del 40 per cento dal 2001 al 2011 (ultimo anno preso in considerazione dal censimento pubblicato nel 2014 dall’Istat), è stato l’unico al riparo dalla prima fase della crisi. Il censimento chiarisce dove e perché crescono «i carini» del terzo settore, che da solo fa il 4,7 per cento del Pil. Sono oltre 300 mila entità, 680 mila i lavoratori dipendenti e 270 mila gli esterni, ai quali si aggiungono 5 milioni di volontari. Il grosso si affolla nella voce “cultura, sport e ricreazione”, e qui dentro c’è di tutto: dal circolo della birra alla cooperativa di giovani studenti che tiene aperte le catacombe sotto il quartiere Sanità, a Napoli. Ma gli occupati e i soldi stanno soprattutto nella sanità, nell’assistenza e nell’istruzione: ci si concentrano i tre quarti dei lavoratori. La sanità è quella che ha la quota più ampia di risorse, con un fatturato di 11 miliardi. Ci sono le classiche cooperative che lavorano per gli ospedali e i Comuni, ma anche le tante che vendono direttamente sul mercato. Realtà economiche grosse, che coprono uno spazio che si amplia sempre di più, mentre lo Stato taglia le spese per il welfare.
Per tutti arriva la novità più consistente della riforma: la trasformazione in “impresa sociale”. Che significa la caduta di alcuni paletti finora rigidi: il divieto di distribuire profitti e la democrazia interna, assicurata dal principio “una testa, un voto”. Resteranno solo alcuni limiti, per salvaguardare l’aggettivo “sociale”. Già, ma quali? La patata bollente è adesso in mano al parlamento. Che ha appena ultimato una sfilza lunghissima di audizioni, dall’Arci al notariato, da Confindustria a Banca Etica, dalla comunità di San Patrignano all’associazione Libera di don Luigi Ciotti. E si è diviso - così come è diviso il mondo del non profit - non mancando di provocare la consueta spaccatura nel Pd. Come ha notato il settimanale “Vita”, organo del non profit e grande sponsor della rivoluzione economica, la riforma è al momento nelle mani della minoranza democratica, che è maggioritaria nella Commissione Affari sociali della Camera: deputati molto vicini alle realtà di base del non profit ma anche alla sua burocrazia, cresciuta negli anni e resistente al cambiamento. Mentre l’ala più pro-market è da sempre ben presente agli incontri renziani della Leopolda.
Ma la questione va oltre il gioco politico del momento. La si può vedere come una sfida tra pro-market e pro-social; innovatori e conservatori; entusiasti e dubbiosi; il nuovo mondo della “finanza d’impatto sociale” e il piccolo mondo antico dei circoli Acli e Arci; chi vuole aprire senza remore al nuovo, e chi invece tenta di mettere degli argini ai nuovi furbetti in salsa sociale.Se ha fatto scalpore il Circolo del golf di Torino che riceve il 5 per mille (vedi articolo a pagina 130), cosa succederà quando vedremo i finanzieri di Goldman Sachs o i consulenti di Ernst & Young dentro le case popolari, gli ambulatori sanitari, l’accoglienza?
Non è uno scenario lontano. Né da temere, dice Giuseppe Guerini, presidente del colosso della cooperazione sociale Federsolidarietà. Che vede bussare alla sua porta più finanza che imprenditori: «Lo si può capire. La capacità di restituire i prestiti ottenuti, nel settore, è altissima. Dunque c’è tutta una parte di finanza che è interessata, perché cerca nuovi campi d’azione e ne guadagna in reputazione». Altro che lavoratori ai margini. Quello dell’impresa sociale «è un modello di sviluppo per il Paese», fa eco Stefano Granata, presidente del consorzio Cgm. Che non è solo il più grosso aggregato di cooperative sociali; è anche, da tempo, l’apripista di un modello ibrido, che mette insieme mercato e sociale.
Un modello radicato nel cattolicesimo lombardo, che da un po’ cerca di emancipare le cooperative sociali dalla dipendenza dal committente pubblico. Hanno messo su Welfare Italia, una rete con 25 centri sanitari in tutto il Paese, per dare prestazioni private a prezzi competitivi con il ticket. Lavorano con la multinazionale Gaz de France in Toscana, per le piccole centrali a energie rinnovabili legate all’agricoltura. Granata fa un esempio attuale, visto quel che accade nelle case popolari: «L’housing sociale può attrarre capitali privati, che una volta avevano ritorni fino al 40 per cento ma adesso non guadagnano niente. Allora diventa appetibile una formula in cui si prevedono affitti dimezzati rispetto a quelli di mercato: noi garantiamo la piena abitabilità e l’accompagnamento sociale, loro hanno un rendimento attorno al 3-4 per cento».
I cattolici di Cgm sono in prima fila, tra i sostenitori pro-market. La loro tradizione di “ibrido” tra profit e non profit non ha avuto difficoltà a intendersi con la nuova moda della “finanza d’impatto sociale”, il cui principale sponsor politico è il leader conservatore inglese David Cameron, che ha fortemente voluto una task force apposita del G8: il suo board italiano è presieduto da Giovanna Melandri, che dal 2012 è nel ramo “economia sociale” con la Human Foundation. Assidua agli incontri è anche Letizia Moratti con San Patrignano. Ultrà della riforma, chiamato da Renzi a suo testimonial, è poi l’imprenditore Enzo Manes, leopoldino, filantropo del fiorentino Dynamo Camp. E poi Confindustria, che con San Patrignano ha dedicato una giornata di studi alla nascita del “quarto settore”. «A noi non preoccupa la contaminazione, lo sbarco nel profit lo abbiamo fatto da quando siamo nati», dice Ugo Biggeri, presidente di Banca Etica, «ma attenzione: se si perdono le caratteristiche proprie del sociale, radicamento col territorio, trasparenza e coerenza, si perdono anche i vantaggi competitivi del nostro settore».
Con il che, si introduce il nodo cruciale su cui ci si sta scontrando. Edo Patriarca - uno dei deputati della pattuglia non profit, una provenienza scout che lo avvicina al premier e la presidenza del Centro nazionale per il volontariato che lo rende sensibile alle ragioni dei puristi - lo riassume così: «Conta solo quello che si fa o ciò che si è?». Sulla prima soluzione, c’è tutto il mondo pro-market: basta misurare l’impatto sociale di un’impresa, non interessa la sua carta d’identità. Arriveranno dunque, con la nuova legge, criteri di misurazione certificabili, rintracciabili, dell’impatto sociale: una specie di “socialometro”. Per dire, i ras delle cliniche alla Angelucci potrebbero entrare in una non profit della sanità: basta che producano “impatto sociale”. L’altra strada - chiarire cos’è un’impresa sociale - è anch’essa problematica. Da tempo il terzo settore puro ha perso la sua identità, e non solo per le coop truffaldine o quelle che legavano gli anziani ai letti: «Non mi preoccupano tanto i cattivi quanto i buoni», dice Giovanni Moro, autore di un libretto dal titolo provocatorio: “Contro il non profit”, nel quale si denuncia la perdita dei contenuti di utilità sociale e il marketing della bontà. Dunque, come valutare i “buoni” adesso che si perde anche l’ultimo baluardo, il non profit? Il testo del governo prevede che le attuali coop sociali si trasformino di diritto in imprese sociali: dunque sono salve, anche se a volte la loro utilità collettiva lascia assai a desiderare. Per il futuro, più che fissare requisiti ci si affida a dei paletti.
Guerini, dalle coop, propone «un tetto agli utili che si possono distribuire: al massimo il 40 per cento». Patriarca, gran cucitore tra le due anime del non profit, invita tutti a non avere tabù, in particolare sugli utili, ma non vuole che nell’impresa sociale possa arrivare uno, comprare quote e comandare: «Serve una governance trasparente, non si può affidare tutto il controllo a chi ha la maggioranza». Punto su cui il sottosegretario Luigi Bobba, che ha traghettato questa riforma dal governo Letta a quello di Renzi, si limita a dire: basta garantire che le imprese non siano scalabili. Quanto alla quota di profit dentro il non profit, sarà di tutto rispetto: «Mi pare ragionevole che possano redistribuire non più della metà dei propri utili; e dare rendimenti non superiori a quelli dei buoni postali fruttiferi, aumentati del tasso di inflazione». Così fatte, le imprese sociali sono pronte, dice Bobba, ad allargarsi oltre i settori tradizionali dell’assistenza, e sbarcare «nel microcredito, inserimento lavorativo, commercio equo, housing sociale ed agricoltura sociale». E i fondi? Il tesoretto da 500 milioni, promesso da Renzi con l’annuncio della riforma, ancora non c’è. Ci sono 50 milioni stanziati nella legge di stabilità: il resto arriverà, dice Bobba, mettendo insieme banche, la solita Cassa depositi e prestiti, fondazioni bancarie, altri soggetti interessati.
Così, con pochi soldi, il governo potrebbe portare a casa una riforma ad altissimo consenso: il vasto mondo che, tra titolari, lavoratori e volontari, gira attorno al non profit, interessato soprattutto al riordino della bolgia attuale ma non indifferente alle potenzialità della trasformazione in impresa sociale; il piccolo ma influente pianeta di chi vuole entrare nel business; un po’ più defilati, gli innovatori dell’economia sociale, quelli che - per dirla con Flaviano Zandonai, ricercatore ed esponente del vivace mondo delle coop sociali del modello trentino - da tempo aspettano “il loro Oscar”, inteso come Farinetti. Per fare con la solidarietà quel che il creatore di Eataly ha fatto con lo slow food: un affare.