
Tocca a loro, infatti, pagare il conto più salato per il dissesto di Banca Marche, di cui erano le principali azioniste. L’intervento del governo, varato il 21 novembre con la supervisione di Bankitalia e il sostegno finanziario di Intesa, Unicredit e Ubi Banca, serve a tutelare i correntisti e, almeno per il momento, anche i posti di lavoro dell’istituto marchigiano. Gli azionisti però, tra cui oltre 40 mila risparmiatori, hanno perso per intero il loro investimento. E in cima alla lista ci sono proprio le fondazioni.
Macerata e Pesaro controllavano ciascuno il 22,5 per cento, Jesi aveva il 10,8 per cento e Fano un altro 3,3 per cento. La crisi di Banca Marche, commissariata per gravi irregolarità di gestione già nel 2013, ha bruciato oltre la metà del patrimonio dei due principali soci. E non va meglio neppure per Jesi, terzo socio dell’istituto. Le cifre del disastro sono scritte nero su bianco nei bilanci delle fondazioni. Nell’arco di tre anni è andato in fumo oltre mezzo miliardo di euro e adesso il futuro degli enti azionisti appare più che mai incerto.
Per salvare il salvabile si è già mosso Giuseppe Guzzetti, l’ottuagenario capo dell’Acri, la potente lobby delle casse di risparmio. Negli ambienti finanziari si è quindi cominciato a discutere di un possibile intervento sponsorizzato dalle fondazioni più ricche, dalla milanese Cariplo alla torinese Compagnia di San Paolo, per sostenere quelle in difficoltà. Se la manovra dovesse andare in porto, i grandi soci si vedrebbero cucita addosso una soluzione ad hoc.
Tutti salvi, quindi. Anche gli uomini che hanno a lungo avallato la gestione fallimentare di Banca Marche, governata da un consiglio di amministrazione composto in maggioranza da professionisti di fiducia dei tre soci maggiori. Per quasi dieci anni il board non ha mai fatto mancare il proprio sostegno al numero uno Massimo Bianconi, il direttore generale che fino a settembre 2012 ha fatto il bello e il cattivo tempo al vertice dell’istituto marchigiano.
Bianconi ora si ritrova indagato dalla procura di Ancona insieme ad altri 32 manager e amministratori per falso in bilancio e una serie di reati contro il patrimonio. Al centro dell’inchiesta penale ci sono anni di prestiti incauti, centinaia di milioni concessi a imprenditori a loro volta finiti nei guai, come l’immobiliarista Vittorio Casale o i pugliesi Ciccolella. Quando nell’autunno del 2013 Bianconi arriva al capolinea, sostituito dai commissari inviati da Bankitalia, il presidente della fondazione di Jesi, Alfio Bassotti, mette subito le mani avanti dichiarando che le «responsabilità vanno cercate dentro la banca, non fuori».
Insomma, il crac sarebbe maturato all’insaputa degli azionisti più importanti. A quanto pare, durante la gestione Bianconi, i soci maggiori si sono accontentati di passare alla cassa prelevando decine di milioni sotto forma di dividendi. Eppure, tra Banca Marche e gli enti che la controllavano esisteva un legame strettissimo.
All’occorrenza gli amministratori della prima salivano ai piani alti degli altri. E viceversa. Risale al 2000, per esempio, la nomina di Giuseppe Sabbatini, classe 1932, presidente in carica della Fondazione Cassa di Pesaro. Nei sei anni precedenti troviamo lo stesso Sabbatini, già parlamentare democristiano dal 1972 al 1983, con l’incarico di vicepresidente di Banca Marche. Una carriera esemplare. Il simbolo di un potere inamovibile molto diffuso nel mondo delle fondazioni bancarie, che in Italia sono 88 e gestiscono attività per un totale di oltre 40 miliardi.
Il buon senso avrebbe consigliato di diversificare gli investimenti. E invece a partire dal 2013, quando la festa è finita, le tre fondazioni sono state trascinate a fondo dal peso della banca su cui avevano puntato ben oltre la metà del proprio patrimonio. Eppure, in passato, non erano mancate le occasioni per sganciarsi. Tra il 2007 e il 2008, colossi come Intesa e Crédit Agricole sembravano intenzionati a sbarcare in forze nelle Marche. Non se ne fece niente, perché i vertici delle fondazioni fecero subito capire di non avere nessuna intenzione di vendere. Se l’affare fosse andato in porto ai prezzi di quel periodo, che ancora non scontavano il crollo dei mercati, i tre enti venditori avrebbero incassato centinaia di milioni. Un tesoro che opportunamente reinvestito si sarebbe trasformato in un fiume di risorse da distribuire sul territorio.
A Macerata, Pesaro e Jesi preferirono tenersi stretto Bianconi. Anzi, non si lasciarono neppure scappare l’occasione di aumentare il loro impegno in banca. Le cronache raccontano di un aumento di capitale da 180 milioni varato nel 2012. Le azioni pagate allora 0,85 euro, un anno dopo erano già diventate carta straccia per effetto delle colossali perdite, oltre 800 milioni in 18 mesi, emerse dopo l’allontanamento del direttore generale. Nel dicembre del 2010, anche la fondazione Fano aveva pensato bene di imbarcarsi su quella nave destinata al naufragio. Con un investimento di 10 milioni di euro la quota in Banca Marche viene aumentata dal 2 al 3 per cento. Nel ruolo di venditore c’è la holding di Francesco Merloni, uno dei figli di Aristide, fondatore della Ariston di Fabriano. Che così riesce a uscire di scena.
Passano meno di due anni e siamo al naufragio. Bianconi perde il posto e con lui manager e amministratori finiti sotto accusa per la fallimentare gestione dell’istituto finito nel mirino di Bankitalia e poi anche della magistratura. Gli enti azionisti accusano il colpo. Nei loro bilanci spuntano perdite per decine di milioni e comincia lo scaricabarile. Macerata contro Pesaro. Jesi contro tutti. Molto rumore per nulla. Adesso che Banca Marche è affondata, le fondazioni, questa volta tutte d’accordo, «si riservano di agire a tutela» dei loro investimenti, come si legge in un comunicato ufficiale dal tono vagamente minaccioso pubblicato la settimana scorsa.
Intanto però sono già partite le manovre per il salvataggio. Se questo dovesse davvero andare in porto, si consumerebbe un’altra ingiustizia ai danni di migliaia di piccoli azionisti. Le fondazioni che comandavano in Banca Marche uscirebbero dalla porta di servizio, pronte a ripartire come se nulla fosse successo. Ai risparmiatori invece, semplici investitori lontani dai giochi di potere, resterebbero le perdite. Cornuti e mazziati, come si dice in questi casi.