Nel grande puzzle che sembra essere l'economia del 2016 lo stato di salute del gigante asiatico resta la variabile più inquietante

Schermata-2016-02-01-alle-10-18-55-png
George Soros, il finanziare che divenne leggendario con la speculazione contro la lira (che nel 1992 perse per colpa sua il 30 per cento del suo valore), e poi contro la sterlina, ha una passione per le valute: adesso nel mirino ha lo yuan, di cui prevede la svalutazione.

Il “Quotidiano del popolo” di Pechino - organo del Partito comunista cinese - lo ha subito preso in giro, accusandolo di ambizione eccessiva nel pensare di mettere in ginocchio la moneta cinese, in crescita da due anni. Ammesso che questo sia davvero l'obiettivo di Soros, è davvero fuori portata? Ebbene, improvvisamente il clima è diventato più che mai favorevole alle scorribande sulle valute.

La mossa della Banca centrale del Giappone (Boj) di portare i tassi sotto zero, con ciò seguendo la strada già intrapresa dalla Bce (ma anche da Svezia, Svizzera e Danimarca per difendere le proprie valute), ha cambiato a sorpresa lo scenario su cui si appoggiavano gli investitori: rendendo lo yen più a buon mercato sostiene la crescita commerciale giapponese e combatte la deflazione importata. Soprattutto, aumenta la probabilità di guerre valutarie a livello globale, visto che questi stessi obiettivi sono condivisi e urgenti anche in altre aeree del mondo, dall'Europa agli Usa.

Tutti gli sguardi sono quindi rivolti soprattutto verso la Cina. Cosa faranno le autorità che governano la valuta cinese adesso che lo yen (una delle economie più interconnesse con quella cinese) è sceso? Potrebbero intervenire, come hanno fatto l'anno scorso svalutando lo yuan del 5 per cento in pochi giorni (e sconvolgendo i mercati globali) e farlo a sorpresa e con la stessa violenza, trascinandosi dietro le valute dei paesi emergenti dell'area?

Nel grande puzzle che sembra essere l'economia del 2016 lo stato di salute del gigante asiatico resta la variabile più inquietante. Olivier Blanchard, uno degli economisti più rispettati al mondo, si è da poco dichiarato scettico sulla frenata cinese, sulla sua entità (“al massimo è una rallentamento”, ha scritto sul sito del Peterson Institute for international economics) e sull'importanza del suo impatto sull'economia americana, visto che le esportazioni Usa in Cina pesano solo il 2 per cento del Pil del paese. Peraltro, nemmeno il Fondo monetario internazionale ha mostrato di preoccuparsi, visto che non ha rivisto il tasso di crescita 2016 previsto per la Cina (6,3 per cento), mentre ha ridotto quello mondiale (3,4).

Sul tasso di crescita della Cina, però, continuano sottotraccia molte perplessità. Ufficialmente, nessuno si azzarda a contraddire i tassi di sviluppo annunciati dalle autorità se non correggerli di pochi decimi di punto, ma l'inquietudine è palpabile in tutti i rapporti degli analisti. E se la crescita fosse di molto inferiore del 6,9 dichiarato nel 2015?, si legge qua e là, riflettendo le ansie nei desk finanziari.

Eppure ormai la conoscenza dei dati dell'economia di Pechino è piuttosto approfondita. Uno squarcio sul suo andamento aggiornato arriva in un rapporto Ubs datato gennaio che, al di là della previsione di una crescita 2016 al 6,2 per cento, e quindi in linea con l'andamento ufficiale, offre importanti elementi di valutazione sulle incognite della transizione cinese.

La prima preoccupazione è la fuga dei capitali dal paese. In vista dell'inizio del nuovo anno cinese, la banca centrale sta dando sostegno al sistema bancario e all'economia aumentando la liquidità in circolazione ma, dicono gli analisti, sarà difficile evitare nuove limature sui tassi nel corso del 2016. Soprattutto, non si riesce a frenare l'uscita dei capitali, iniziata dal 2011, e che continua a dispetto dei tentativi di fermarla, mossa com'è dal timore di una nuova perdita di valore dello yuan. Così la Pbc, la banca centrale, insegue il flusso in uscita come nella parabola di Achille e la tartaruga, iniettando liquidità ma senza riuscire a invertire il fenomeno. Prova ne è che le riserve valutarie del paese sono scese, come pure quelle dell'istituto centrale. Sono i cinesi per primi che temono dunque la discesa dello yuan.

Pesano molti segnali del cambio di passo nel modello di sviluppo. Gli investimenti fissi, per esempio, sono scesi: sia quelli nel settore infrastrutture (tranne che nelle utilities) che quelli nel settore immobiliare. Contagiando quindi i settori che riforniscono la costruzione di case, come i prodotti in acciaio. A contrastare la frenata si sta dando da fare la mano pubblica, che finanzia progetti di social housing e investimenti. Ma basteranno a bilanciare la perdita di giro d'affari delle aziende e quindi il dimagrimento dei loro bilanci? Gli analisti hanno forti dubbi.

L'industria cinese si ritroverà quindi nel 2016 con un eccesso di capacità e cui le né le esportazioni né il mercato interno potranno dare sollievo. E che detterà alle imprese un atteggiamento molto cauto rispetto alla ricostruzione del magazzino durante questo anno così incerto. Le imprese sono scottate dalla frenata dei fatturati a fine 2015 (meno 4,9 per cento in dicembre rispetto a 12 mesi prima), e anche se i margini sono migliorati (più 7,7 per cento dicembre su dicembre), ci penseranno bene prima di riprendere la produzione a tutto vapore, visto anche che il clima non è favorevole ad un aumento dei consumi.

Finora sui consumi la frenata non c'è stata. Nel 2015 sono cresciuti (più 11 per cento a dicembre rispetto ai 12 mesi precedenti), ed è andata benissimo anche la vendita di auto (più 15,6 per cento in volume). Per di più, i cinesi sono meno influenzati di altri consumatori dalla discesa delle Borse, perché questo tipo di investimento rappresenta solo un decimo dei loro patrimonio, che è per il 40 percento immobiliare. Quindi i rovesci del listino di Shanghai non dovrebbe pesare. Prova ne è che alla fine dell'anno passato la spesa pro capite in consumi è salita (più 5,6) nonostante il reddito disponibile sia sceso. Ma nel 2016? Lo scenario cambia: i timori per l'andamento dei consumi sono legati quest'anno al raffreddamento della crescita degli stipendi, dovuta anche al fatto che l'industria sarà costretta a tagliare capacità produttiva in eccesso, e dunque a ridurre forza lavoro.

È il settore delle costruzioni, che è stato finora uno dei motori della crescita, che ha vissuto lo shock più grande: l'espansione immobiliare ha creato una sovrabbondanza di offerta che ha letteralmente affogato il mercato. Presi dalla necessità di alleggerire gli stock, i costruttori hanno frenato sui nuovi progetti: dopo un meno 10 per cento nel 2014, il 2015 è sceso del 14 per cento, e l'acquisto di nuove aree ha registrato una frenata del 32 per cento. In compenso, le vendite sono proseguite al ritmo del 6,5 per cento. La previsione? Che il ritmo di crescita del settore si ridurrà al 5 per cento, quindi in ulteriore frenata. E che Pechino dovrà intervenire per stimolare le vendite con interventi di taglio sulle condizioni dei mutui e di spinta sulle autorità locali per acquistare pacchetti di immobili.

Come grande player commerciale il 2016 della Cina sarà comunque in crescita. Aumenteranno le esportazioni del 3 percento, mentre le importazioni cresceranno solo dell'1, prevede Ubs, con il risultato di far crescere ancora il surplus commerciale cinese a 644 miliardi.

E torniamo ai capitali in fuga: nel corso del 2015 sono usciti oltreconfine 513 miliardi di dollari. Molto è dovuto a restituzione di prestiti in valuta da parte delle grandi corporation, certo, ma i flussi in uscita continueranno, dicono gli analisti di Ubs, forzando le autorità governative a prendere provvedimenti, che andranno proprio nel senso dell'avveramento della profezia di Soros. Per contrastare il deflusso dei capitali nel timore della svalutazione della valuta, la banca centrale dovrà o imporre nuove regole sul controllo dei movimenti di capitale, o intervenire sui tassi, o tutti e due. Ma non potrà che accettare, dicono gli analisti, una nuova svalutazione dello yuan del 5 per cento nel corso dell'anno.

Cosa ne sarà quindi del programma del governo cinese di rendere il renminbi una valuta di mercato a pieno titolo? Potrà subire dei rallentamenti? La risposta è no: le autorità – almeno questo vedono gli analisti – continueranno a pilotare la moneta verso una crescente indipendenza dal dollaro. E continueranno ad allargare le maglie della liberalizzazione con l'introduzione di modelli di mercato nel settore del denaro (dall'annullamento del limite di tasso sui depositi, all'introduzione di certificati di deposito sia per i privati che per le società, e di un sistema di assicurazione sui depositi). Tutte aperture che introdurranno maggiore volatilità nel sistema. E che potrebbero rendere il “lavoro” di Soros più semplice.