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Mercati turbolenti? Colpa di petrolio e QE: che domani potrebbero aiutare la ripresa

di Paola Pilati   15 febbraio 2016

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Il ribasso del prezzo del barile e l'eccessiva immissione di liquidità sono tra i principali responsabili delle turbolenze delle borse di questi giorni. Ma da loro dipendono anche le speranze di ripresa

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Caccia al colpevole. Dopo la bufera che ha sconvolto i mercati da inizio anno (e che non è detto che sia passata), l'esercizio degli analisti è scovare il responsabile. Sul "Financial Times" del 12 febbraio, John Authers ha elencato 12 sospetti, come quelli dell'Orient Express di Agatha Christie. Vanno dall'esuberanza irrazionale alla Fed, dall'Opec ai fondi sovrani ai tassi sotto zero. Abbastanza numerosi per deviare la rabbia degli investitori dai traders e dai responsabili dei borsini, che si trovano sulla front line, ma troppi per essere davvero tutti "assassini".

E infatti la lista si è rapidamente assottigliata. La caccia al colpevole ora si è ristretta a due: il basso prezzo del petrolio, e la politica delle banche centrali. Il primo per avere decapitato dal top dei listini molti giganti che ne erano la spina dorsale, le seconde, fino a ieri messe sul piedistallo, biasimate perché il QE, il quantitative easing con cui hanno innaffiato di liquidità i mercati, forse ha fatto più male che bene.

Cominciamo dal petrolio. Il crollo dai 100 euro del 2014 ai 30 di oggi ha messo a dura prova le compagnie, che lavoravano col break-even del prezzo del barile più alto. Soprattutto, ha contagiato un po' tutti i settori economici (e quindi i profitti attesi, e dunque le quotazioni): nel gioco "chi ha vinto chi ha perso", tra i primi ci sono le compagnie aeree, che hanno potuto operare con costi del carburante ridotti, il settore chimico, che ha avuto oneri di produzione minori e portato a casa margini migliori, il farmaceutico perché è considerato un settore difensivo in tempi difficili; nel secondo gruppo ci sono le utilities che dipendono molto dal petrolio, un po' tutte le commodities, che vengono risucchiate dal ciclo al ribasso, e naturalmente le compagnie petrolifere. Non tutte alla stessa stregua però, ma solo quelle concentrate nell'upstream, cioè nella ricerca ed estrazione, mentre le compagnie della raffinazione hanno visto i propri margini gonfiarsi, e altrettanto continueranno a fare quest'anno.

La domanda da un milione di dollari a questo punto è: il petrolio ha toccato il fondo?

Ebbene, d'ora in poi, dicono gli analisti, il petrolio non può che risalire. Non domani, vista ormai l'impotenza dell'Opec a pilotare il mercato, ma magari nel giro di due anni, un pochino alla volta cominciando da fine 2016. Nell'immediato, però, le compagnie dovranno attraversare una seria cura dimagrante. Tagliare i propri costi operativi, e quindi gli investimenti e in ultima analisi anche i dividendi. Ma così rimesse in forma, potranno beneficiare al massimo grado di qualsiasi anche piccolo incremento del valore del barile. Insomma, il "bagno" di oggi selezionerà i migliori che approfitteranno del vento in poppa, quando comincerà a soffiare.

Il secondo colpevole della bufera sono i banchieri centrali. Dopo essere stati portati alle stelle e trattati da supereroi, ora il loro operato di stimolo monetario viene messo sotto esame con occhi più critici. Come s'è visto, il QE ha aiutato a tagliare i tassi delle emissioni obbligazionarie, e ha anche sostenuto i prezzi delle azioni, ma non è servito, per esempio, a tenere basso l'euro né a produrre lo sperato effetto di far ripartire l'inflazione; quanto alla Fed, è stata proprio la Yellen ad ammettere di essere stata troppo precipitosa a far risalire i tassi lo scorso dicembre, e di essere pronta a fare marcia indietro.

L'ammissione dell'errore, e la scoperta che il bazuka della Bce può fare cilecca, hanno iniettato il veleno dell'incertezza nei mercati. Con il sospetto che prima o poi le banche centrali possano cominciare a chiudere il ciclo del QE, e iniziare quello del QT, il quantitative thightening. Cioè iniziare a vendere i bond che hanno acquistato, oppure a lasciare che arrivino a scadenza senza acquistarne degli altri. Quante probabilità ci sono che questo accada?

Nell'orizzonte che abbiamo assai poche, concludono gli analisti. Negli Usa e in Gran Bretagna le autorità hanno interrotto gli acquisti ma si tengono stretti i titoli in portafoglio e non hanno nessuna intenzione di venderli, per timore delle reazioni del mercato. Nel caso della Banca d'Inghilterra, vuol dire conservare i titoli fino a luglio del 2068 (e quindi molto dopo che tutti i protagonisti delle decisioni di oggi saranno fuori gioco). Quanto a Draghi, ha già detto che se necessario darà ancora ossigeno ai mercati con nuovi acquisti. E più aumenta il quantitativo degli acquisti, più si allontana nel tempo la via d'uscita, e più si fa difficile anche la strategia per tornare alla normalità.

Ci toccherà quindi essere la generazione del QE, ha detto qualcuno, a significare che ci segnerà a lungo e in profondità. Con quale effetto secondario per i money manager, cioè i gestori dei fondi, i veri padroni del campo? Un effetto che hanno già messo alla prova e su cui continuano a scommettere: e cioè che i tassi dei bond resteranno bassi e i valori dei titoli in Borsa continueranno a beneficiarne, come di una cura vitaminica.

La caccia ai colpevoli, insomma, non finisce con le manette, ma con un rilancio verso prossimi nuovi rimbalzi del mercato all'orizzonte. Per la serie: finché c'è vita c'è speranza.