Macchinari. Prodotti plastici. Persino la carta igienica venduta ?col marchio Walmart. Cresce il numero delle nostre aziende ?che aprono fabbriche negli Stati Uniti. Ecco i motivi di una svolta

Oklahoma
Anderson, in Indiana, è una tranquilla città di provincia come ce ne sono tante nel Midwest americano. Fondata a metà dell’Ottocento, la popolazione è in calo, ci vivono oggi 56 mila persone, per il 78 per cento bianchi. Età media 37 anni, dai 3 ai 5 omicidi l’anno, antiche radici tedesche, pochi nuovi immigrati. Dopo la partenza di General Motors, i principali datori di lavoro sono ora gli ospedali. In quest’atmosfera sonnacchiosa, a fare notizia di recente, come ha segnalato il giornale locale “Herald Bulletin”, sono stati degli italiani. Ben tre nostre aziende vi stanno infatti aprendo delle loro fabbriche o lo hanno fatto negli ultimi due anni .

La Tecnoplast di Limbiate, vicino a Monza, è specializzata nella lavorazione delle materie plastiche e nella progettazione e produzione di impianti tecnologici per la realizzazione di prodotti chimici. Nel novembre del 2014 si è spostata qui dalla vicina Whitestown, dove era sbarcata qualche anno prima, quadruplicando gli spazi produttivi. «Ho sempre sognato l’America, da quando avevo 15 anni e sono partita per studiare», ha raccontato il giovane amministratore delegato Gloria Da Ros. Questo febbraio, poi, ha iniziato a produrre ad Anderson la padovana Sirmax, attiva nel campo dei prodotti termoplastici. Collabora con la Whirlpool e con l’industria automobilistica, sta investendo circa 25 milioni di dollari e impiegherà 50 lavoratori. Infine c’è la veronese Italpollina, che qui ha cominciato a costruire il proprio quartier generale americano, dove dal 2017 conta di produrre i suoi fertilizzanti organici.

Si tratta di tre aziende che, mantenendo inalterate le attività italiane, stanno provando ad agganciare la ripresa economica statunitense, attratte pure dagli incentivi messi a disposizione dal governo federale, dai diversi Stati e dalle città. E spinte, perché no, anche dal mito dell’American Dream.

Sempre più nostre imprese stanno infatti provando a sfondare investendo negli Usa. «La tendenza è in crescita. Si è passati da 1,95 miliardi di dollari nel 2013 a 3,7 miliardi nel 2014, fino a 5,15 miliardi nel primo semestre 2015, uno dei più alti aumenti visti negli ultimi dieci anni», spiega Maurizio Forte, direttore della sede di New York dell’Ice, l’Istituto nazionale per il commercio estero: «Gran parte del merito va alla contabilizzazione dell’acquisizione di Igt da parte del gruppo italiano Gtech (il colosso delle lotterie, controllato dal gruppo De Agostini, ndr), decisa nel luglio 2014, ma le prospettive di ulteriore crescita sembrano buone, in particolare nei settori della meccanica e dell’automotive, dove si possono prevedere buone opportunità, specialmente per chi segue la scia di Fiat-Chrysler e del rilancio del marchio Alfa Romeo».

Per il 45 per cento, ovvero un valore di 13 miliardi di dollari nel 2014, i nostri investimenti si concentrano nell’industria manifatturiera, in particolare nella chimica, nei macchinari e nei trasporti. Segue il settore del commercio con il 14 per cento e 4 miliardi di dollari, e infine c’è quello dei servizi, soprattutto attività finanziarie, assicurative e immobiliari, con il 9 per cento e 2,5 miliardi. Le aree geografiche degli Stati Uniti in cui c’è la maggiore concentrazione di nostre imprese, infine, sono il Sud (circa il 37 per cento), il Nord Est (28), il Centro Ovest (21) e l’Ovest (14). Si potrebbe, tuttavia, fare di più.

A febbraio è stato pubblicato l’ultimo rapporto dell’Ofii, la Organization for International Investment di Washington. Nella classifica degli investimenti negli Usa, le nostre aziende figurano al dodicesimo posto, ma con numeri molto distanti da Germania e Francia, e solo di poco più alti di Paesi molto più piccoli del nostro, come quelli scandinavi. Dall’Ice ci spiegano che nel 2014 lo stock di investimenti italiani negli Usa era pari ad appena lo 0,8 per cento del totale dello stock detenuto dagli stranieri in quel Paese, una cifra che rappresentava solo il 4 per cento dei nostri investimenti all’estero.

«Un dato preoccupante è che l’Italia non è tra i 15 Paesi che negli ultimi 5 anni hanno fatto crescere di più la propria presenza», precisa da Washington Aaron Brickman, vicepresidente dell’Ofii ed ex vicedirettore di SelectUsa - l’agenzia governativa che promuove gli investimenti stranieri negli Usa - che sottolinea come «in tanti campi, dall’alimentare al manifatturiero fino soprattutto al design, le vostre piccole e medie imprese sono in grado in creare dei posti di lavoro che a noi servono moltissimo».


RISPETTO ALLA ROMANIA E' UN'ALTRA STORIA

I dati del fatturato realizzato localmente dai gruppi europei, però, possono essere un po’ ingannevoli, in quanto molte filiali americane delle stesse aziende potrebbero semplicemente rivendere laggiù prodotti fabbricati altrove. E, qui, pesano le dimensioni spesso piccole dei gruppi italiani. C’è però un dato che aiuta a dipingere un quadro un po’ più luminoso. Spiega Sergio Mariotti, docente di economia al Politecnico di Milano: «Abbiamo calcolato che dal 2007 al 2014 c’è stato un incremento dell’85 per cento di dipendenti di aziende italiane negli Usa, un dato che non ha riscontri in altre aree e che, al di là del cambio favorevole, rivela una presenza articolata».

Chi va negli States affronta ovviamente una sfida molto diversa da chi approda nell’Est Europa o in Asia. «Oltre che per l’ambizione di conquistare una fetta di un sistema enorme ed evoluto, si va negli Usa perché sono un grande mercato di sbocco e per fare prodotti di qualità utilizzando buone tecnologie e una manodopera ampia e preparata, anche considerando che il costo del lavoro e i fattori produttivi non sono più proibitivi come un tempo. Invece in Romania o Cambogia si opera a basso costo e per rivendere poi altrove».

La crescita negli Usa è un buon segnale per l’azienda Italia? «Il nostro modello rimane ancora molto eurocentrico rispetto a Francia e Germania, la struttura economica fatta di medio-piccole non ci permette di raggiungere grandissimi numeri e scontiamo un gap di globalità soprattutto in Asia e nell’area Pacifico. Però negli States ora siamo messi meglio. Sì, è un bel segnale, anche se c’è ancora da pedalare».

«È un segno di fiducia anzitutto verso gli Usa», commenta Andrea Goldstein, direttore della società di studi economici Nomisma, «ma anche per l’Italia, è vero, ed è interessante che tante di queste aziende siano a gestione familiare e spesso appartengano a un made in Italy, quello della meccanica strumentale, meno celebrato rispetto alla moda e al cibo. In America le istituzioni sono forti e i rapporti con i sindacati più agevoli, però è un sistema molto concorrenziale in cui sono presenti grandi player locali e stranieri, e quindi farsi largo non è per niente facile. Una volta le nostre imprese che volevano andare all’estero partivano magari dalla Francia, oggi invece la crisi europea ha spinto tanti a provare direttamente la carta americana. D’altronde l’internazionalizzazione è spesso l’unica strada per crescere, e qui si può sfruttare anche il traino di Fiat-Chrysler».

Tra gli investimenti degli ultimi anni c’è quello del pastificio Giovanni Rana, che oltre ad aprire un ristorante nel cuore di Manhattan ha investito 80 milioni di dollari per uno stabilimento a Chicago, e già nel 2014 realizzava in America il 18 per cento del fatturato totale. Ancora più recenti sono quelli del gruppo romagnolo Del Conca (produttore di ceramica che ha raddoppiato la capacità nel Tennessee e assumerà 40 nuovi dipendenti), della friulana Pietro Rosa Tbm (leader nei compressori di turbine a gas, ha comprato la Airfoil Products e creerà 100 posti di lavoro in Connecticut nei prossimi cinque anni) o dei Fratelli Beretta (nuovo salumificio in New Jersey). Interpellato via Skype da Chicago, Matteo Picariello, responsabile dell’agenzia Ice che si occupa del Midwest, segnala anche una nuova tendenza: «Nel Midwest hanno aperto diverse aziende italiane specializzate nell’information technology e legate al settore manifatturiero. Sono ad esempio la Reply, la Techedge, la Cefriel e la Text4assist».

Il fatto che gli imprenditori partano dall’Italia per andare a produrre e vendere software negli Stati Uniti colpisce. Anche se, per il momento, si tratta spesso di iniziative pilota, di piccole dimensioni, mentre il grosso lo fa l’industria manifatturiera. Sempre nel Midwest sta aprendo un nuovo stabilimento il Gruppo Sofidel, tra i principali produttori al mondo di carta per uso igienico e domestico, più noto per i rotoloni Regina. Sorgerà a Circleville, in Ohio. Che posto è? «È carina, una specie di villaggio di campagna. È famosa per un festival della zucca che ogni ottobre accoglie 100 mila persone al giorno per una settimana», ci racconta l’amministratore delegato Luigi Lazzareschi.

La storia di Sofidel inizia nel 1966 a Porcari, in provincia di Lucca, ma la svolta si ha alla fine degli anni Novanta, quando la strategia dell’azienda si fa internazionale con l’avvio della produzione direttamente nei mercati di sbocco. Prima un po’ in tutta Europa, dalla Francia alla Svezia fino alla Turchia. Poi, nel 2012, lo sbarco negli Usa con una prima acquisizione. Ora il gruppo è presente in sette Stati americani.
«Nello stabilimento in Ohio stiamo investendo oltre 300 milioni di dollari. Quando nel 2017 sarà pronto ci lavoreranno 300 persone, che, insieme alle 200 che cominceranno intanto ad essere impiegate nel Mississippi, porteranno a un totale di oltre mille i nostri dipendenti nel Paese», spiega Lazzareschi, il cui gruppo ha oggi nel mondo 5.500 dipendenti ed è secondo in Europa nel settore.


LA LEZIONE DI MINNIE

Perché gli Stati Uniti? «Con un consumo annuo medio a persona di 25 chilogrammi di carta per uso igienico e domestico, sono il principale mercato mondiale. E poi qui il “private label” (i prodotti venduti con il marchio del distributore, ndr) ha grandi margini di crescita, è solo intorno al 20 per cento, contro una media europea del 60. Noi ad esempio produciamo i rotoli che la grande catena Walmart vende con il proprio marchio».

Tra i vantaggi di investire ora negli Usa, per Sofidel, non c’è tanto la possibilità di agganciare la ripresa americana («Nelle case il consumo della nostra carta non cala con la crisi. Tutt’al più i bar e i ristoranti possono mettere meno tovaglioli a disposizione dei clienti») quanto piuttosto un sistema attraente per la flessibilità, per il carburante più economico e per il trasporto dei mezzi pesanti, molto più veloce. Come ha scelto le sedi?

«Anzitutto abbiamo aperto in più Stati per coprire meglio tutto il territorio. Poi abbiamo cercato terreni grandi e pianeggianti, con un buon sistema ferroviario e una buona copertura di acqua, energia elettrica e gas. In qualche caso conta anche il rapporto con le istituzioni e gli uffici di promozione locali, che sono attivissimi. Basti pensare che, negli ultimi due anni, sono venuti in visita da noi a Lucca ben tre diversi governatori di Stati americani», racconta Lazzareschi. E come è il costo del lavoro? «Dipende dagli Stati, ma gli operai di basso profilo hanno stipendi inferiori alla media europea, mentre i lavoratori di alto profilo sono più cari ma sono più difficili da trovare, soprattutto lontano dalle grandi città. In generale l’America è un Paese ancora molto contadino».

In futuro converrà ancora investire negli Usa? «I tassi di cambio al momento sono ancora favorevoli per l’Italia e le condizioni macroeconomiche ci sono», risponde Matteo Picariello dall’Ice di Chicago: «Tanto più che gli Stati Uniti registreranno un incremento demografico del 17 per cento entro il 2030, collocandosi così al terzo posto dopo l’India e la Cina».

Qualche consiglio per le aziende italiane prova a darlo Aaron Brickman dell’Ofii: «Il personale con cui arrivate in America è decisivo, serve un team che capisca che ogni Paese è una storia a sé». Che cosa suggerisce invece Lazzareschi? «Di non dimenticarsi che noi siamo molto più avanti tecnologicamente rispetto alla filiera statunitense».

Per il manager della Sofidel, al momento, l’American Dream sembra proprio si sia avverato. «Mio padre, uno dei fondatori dell’azienda, mi spinse ad andare sei mesi negli Stati Uniti a imparare l’inglese. Era il 1982, erano i tempi in cui tutti ascoltavamo Madonna e Michael Jackson. Iniziai da Columbia, nel South Carolina», ricorda. «L’America mi piacque, rimasi a fare l’università. Fino al 1987 tornavo in Italia solo per Natale. Vissi lì i miei anni migliori, e ho sempre sognato di tornare in quel Paese pieno di energia e libertà, che premia il merito. D’altronde mi avevano già spiegato tutto Minnie e Mickey Mouse. La prima volta che andai a Disneyland, in Florida, passai in mezzo a loro e lessi una frase che ogni tanto, pensando alle nostre avventure negli States, mi torna in mente. “Dove i sogni diventano realtà”».