Le oscillazioni in borsa seguite alla Brexit hanno dato una nuova mazzata ai titoli degli istituti di credito del nostro paese. Aumentando i dubbi sull'efficacia della vigilanza. Ma ora per uscire dai guai servirebbero nuovi strumenti

Monte dei Paschi di Siena
È stata la Brexit a dare il colpo di grazia alle nostre banche? È stata cioè la revisione al ribasso del quadro economico europeo e delle sue prospettive di crescita seguita al risultato del referendum britannico a far convergere sul mondo del credito made in Italy gli sguardi di tutto il pianeta e a scatenare l'inferno?

Di certo la fuga dai titoli bancari italiani ha assunto dimensioni che ricordano quella della Grecia in bilico sull'addio all'euro, con perdita della metà del loro valore e anche del 75 per cento da inizio anno. Le vendite si sono ripetute anche quando le Borse hanno incominciato a reagire allo shock Brexit su altre famiglie di titoli, ora in ripresa, ma precipitando il valore delle banche a livelli che rendono sempre più difficile intervenire con aumenti di capitale di mercato.

Eppure, anche per gli analisti più pessimisti, la Brexit alla fine dei conti non è un cataclisma per l'Europa. Il clima economico sta dando segnali positivi: il tasso di occupazione nell'area è in aumento, e così anche la propensione al consumo, come dimostrano le vendite di auto che crescono a due cifre (la registrazione di auto nuove è del 18 per cento superiore a quella di un anno fa), e anche le imprese hanno cominciato a prendere in considerazione di investire in nuovi macchinari.

Perché allora le banche, anzi le banche italiane? Perché i mercati sentono l'odore del sangue come gli squali, e sanno che sono oggi le più esposte al problema dei "non performing loans" (Npl), i prestiti a rischio o addirittura già in sofferenza, che ammontano alla cifra record in Europa di 360 miliardi di euro. E sanno anche che per mettere in sicurezza i nostri istituti di credito c'è pochissimo spazio di manovra. Il governo Renzi dovrà infatti passare attraverso un tunnel strettissimo che ha da un lato la Scilla della direttiva del bail in (che prevede che i casi di risoluzione bancaria, cioè fallimento, siano coinvolti anche azionisti e clienti) e la Cariddi del divieto di aiuti di Stato.

Ma come mai la questione dei Npl italiani è emersa così all'improvviso all'inizio del 2016 dopo che tutti gli stress test fatti in precedenza, che pure li avevano messi in evidenza, non avevano creato allarme? In un lavoro appena sfornato dal think tank Bruegel, che analizza i primi diciotto mesi dell'attività del "Single supervisory mechanism", con molto tatto si affronta il problema: la nuova Vigilanza costruita per le banche del continente, a sua volta pietra fondante della futura unione bancaria, si è mossa in maniera abbastanza autorevole e incisiva nell'indicare alle banche la strategia più appropriata per consolidarsi? Una domanda retorica che rende lecito qualche dubbio.

Il caso Montepaschi in questo senso è emblematico. Solo grazie a indiscrezioni, lunedì 4 emerge, nel pieno dell'altalena borsistica e della bufera sui titoli italiani, che la banca senese ha ricevuto una "bozza di decisione" dalla Bce che le chiede di ridurre di 10 miliardi netti di qui al 2018 il peso dei non performig loans che pesano come macigni sul bilancio della più antica e più disastrata banca italiana da tempo, impiombandola ulteriormente nel listino e tirando giù con sé tutto il comparto. Come mai una situazione già ben conosciuta deve essere riportata in carreggiata usando un metodo così obliquo, il "detto e non detto"? Possibile che la comunicazione in materia non possa essere gestita con più trasparenza?

Per non parlare del caso Deutsche Bank, gigante tedesco ed europeo di prima grandezza: anche qui, c'è voluto il Fondo monetario internazionale per dire chiaro e tondo che tra le banche globali è quella da considerare più a rischio (seguita da Hsbc e Credit Suisse) per l'estensione delle sue interconnessioni finanziarie. E questo solo grazie al risultato dello stress test annuale della Fed. Ma non c'era la Vigilanza europea che se n'era già occupata? E non era già noto a tutti che DB ha in pancia una montagna di titoli tossici risultato delle sue operazioni su derivati e altri strumenti di turbofinanza, pari a 32 miliardi di euro, di cui nessuno conosce il valore reale?

Però, come spiega il rapporto Bruegel nel capitolo dedicato alla Germania, lì la Vigilanza europea è mal digerita, e viene accusata di chiedere troppi dati, e di pretendere – che cosa strana - che le banche uniformino i criteri contabili, per renderle più facilmente analizzabili. Insomma, è mal sopportata.

Ora, se il governo dei rischi del sistema bancario è ancora così timido, e se ha dimostrato che nonostante il lavoro di analisi fatto finora, i suoi "warning" non servano a mettere al riparo dall'incertezza i soggetti su cui vigila, non è forse il caso di trovare qualche correttivo? E magari, come sta facendo Renzi, sfidare l'ortodossia della Merkel, per mettere in campo strumenti di intervento più robusti ma che soprattutto suonino agli squali del mercato con la stessa determinatezza della famosa frase di Mario Draghi, il "wathever it takes" di quattro anni fa?

Rischiamo di arrivare a fine luglio, quando verranno resi pubblici i risultati dell'ultimo stress test dell'Eba, l'autorità bancaria europea, prendendone ancora di santa ragione dalla speculazione. E mettendo in serio pericolo anche la parte sana del nostro sistema bancario. Occorre invece prendere in contropiede quanti scommettono sulla nostra fragilità (peraltro in tanti casi vera). Ma non basta aver strappato l'ok dell'Unione europea sul fondo per erogare liquidità alle banche in caso di necessità (un fondo da 150 miliardi che funzioni come garanzia statale del debito delle banche sane).

È venuto forse il momento di dare all'Italia la possibilità di intervenire sulle sofferenze bancarie con più mezzi di quelli con cui si è dotato il Fondo Atlante, esauriti in un soffio per salvare dal crack le banche venete. E cioè di intervenire sul capitale delle banche. Una "ricapitalizzazione precauzionale" che aprirebbe la strada alla possibilità di sbloccare anche il meccanismo dei crediti deteriorati, che oggi nessuno si azzarda a rimuovere dai bilanci bancari perché "valgono" troppo, più di quanto il mercato è disposto a pagarli.

Naturalmente questo avrà un prezzo per gli azionisti delle banche (che saranno diluiti) e per i banchieri: come hanno ricordato Alesina e Giavazzi, il Trap2 varato negliUsa come risposta alla crisi Lehman e subprime, obbligò le banche a emettere nuove azioni, abbassandone il valore, e impose un rappresentante del governo all'interno dei consigli d'amministrazione delle banche maggiori. Il risultato fu che le banche ce la misero tutta per liberarsi dei guardiani poco graditi e poco a poco si ricomprarono le azioni possedute dal governo. Che ci ha guadagnato, cioè ci hanno guadagnato i contribuenti.

Forse l'Europa, che vuole ritrovare delle ragioni per rimotivare i suoi cittadini a restare nel progetto comune dopo lo shock della Brexit, dovrebbe pensarci bene: arroccarsi dietro l'interpretazione stringente di regole che finiscono per scaricare tutto il danno sui risparmi delle persone normali, o mettere i banchieri di fronte alle loro responsabilità? Magari la risposta non è sempre la stessa.