I dati parlano chiaro: negli ultimi anni le aziende capaci di svilupparsi sono state quelle controllate dallo Stato. Oppure quelle nate nei distretti, che stanno tornando sopra i livelli pre-recessione. Cioè proprio le categorie ?che si consideravano superate

Ormai da diversi anni, quando deve redigere la legge di bilancio e i documenti di finanza pubblica, al ministro dell’Economia in carica tocca rispondere a un quesito quasi automatico: «Quanti soldi incasseremo dalle privatizzazioni?». Il rebus viene risolto in genere sovrastimando le entrate che, nei mesi successivi, arriveranno effettivamente dai pacchetti azionari delle aziende pubbliche messe davvero in vendita. Per fare un esempio: l’ultimo programma di stabilità, firmato l’11 aprile dal ministro Pier Carlo Padoan, sostiene che gli introiti da privatizzazioni ridurranno il debito pubblico nel quadriennio 2017-2020 per un importo pari allo 0,3 per cento del Pil l’anno, e cioè complessivamente per oltre 20 miliardi di euro. Piani così aggressivi si scontrano in genere con varie difficoltà, come dimostra il bilancio dell’anno appena finito, il 2016, quando gli incassi si sono fermati a un quinto del previsto. Peccato, si potrebbe dire, visto che i soldi delle dismissioni dovrebbero andare a ridurre l’enorme mole del debito pubblico che grava sui nostri destini. Eppure, guardando i dati riportati nelle figure di queste pagine, sorge il dubbio che le mancate privatizzazioni non debbano essere accolte con rammarico ma, piuttosto, con sollievo.

Da tempo, infatti, tra i grandi gruppi industriali italiani quelli a controllo pubblico sono stati tra i pochi a non issare bandiera bianca ma, al contrario, a continuare a crescere. E l’hanno fatto in un contesto difficile, nel quale gran parte delle aziende private è stata invece ceduta, ha trasferito la sede all’estero o si è rimpicciolita, talvolta al punto di scomparire. La tabella pubblicata in questa pagina è illuminante. Mette a confronto le dieci maggiori società per azioni italiane - escluse banche e servizi finanziari - con quelle di 25 anni fa, un periodo di tempo durante il quale è successo di tutto. Ebbene: nel 1991 erano in mano a imprenditori privati italiani ben sette delle prime dieci società per azioni tricolori, ordinate per dimensioni del giro d’affari. Oggi nella top ten è rimasta un’unica superstite, la Edizione della famiglia Benetton, che controlla gli Autogrill e le autostrade del gruppo Atlantia.





Colpisce, nella classifica attuale, vedere in una posizione molto rilevante – è la nona azienda assoluta – la filiale italiana della compagnia petrolifera Esso, che nel nostro Paese si limita a gestire alcune raffinerie e a vendere i carburanti ai distributori di benzina. In un quarto di secolo, tra le altre aziende industriali private in effetti sono spariti alcuni giganti di un tempo, come Ferruzzi-Montedison e Olivetti. Sono migrate all’estero Fiat, oggi Fca Group con sede legale in Olanda; Telecom Italia, controllata di fatto dalla francese Vivendi; Luxottica, da poco fusa in Essilor, con quartier generale a Parigi. Restano invece in Italia, e sono cresciute, Eni, Enel, Leonardo (l’ex Finmeccanica) e Saipem, accomunate da una caratteristica che le rendeva “sbagliate” per l’ideologia imperante negli anni Novanta, quando si pensava che le privatizzazioni avrebbero reso più moderno ed efficiente il capitalismo italiano: sono tutte controllate dallo Stato.

Chi resiste e chi no
I dati fanno parte di uno studio la cui presentazione è in calendario per lunedì 22 maggio, in un convegno organizzato dal Senato e dall’Università Cattolica di Milano, significativamente dedicato a “Lo Stato azionista”. Lo ha realizzato Fulvio Coltorti, economista che ha guidato per lungo tempo l’Area studi di Mediobanca e che oggi, alla Cattolica, insegna Storia dell’industria. L’analisi di Coltorti non si limita a evidenziare come, a dispetto delle previsioni di un tempo, siano state proprio le aziende pubbliche a manifestare una maggiore resistenza alle trasformazioni globali. Fa emergere anche un secondo fattore di grande interesse: in questi anni, ad attutire gli effetti della crisi sull’economia italiana non sono state le grandi imprese, ma quelle di medie dimensioni, e in particolare quelle che vengono definite del “quarto capitalismo”. Sono aziende manifatturiere ancora familiari, nate nei distretti industriali, caratterizzate da una forte vocazione per l’estero, dette spesso “multinazionali tascabili”. Possono essere più piccole o anche relativamente grandi ma, se superano certi livelli, impongono ai proprietari scelte precise, perché non possono più essere gestite in famiglia. È accaduto a Luxottica, nata nel distretto bellunese degli occhiali. Ma anche altre realtà notissime dell’industria italiana, dalla Brembo dei freni per automobili alla Mapei dei collanti chimici, sono lì sul crinale, pronte a cambiare pelle. Il punto non è però questo.

Tascabile è meglio
La vera questione è che, in questi anni, sono proprio le aziende di medie dimensioni ad aver fatto meglio delle big, contribuendo in maniera decisiva alla bilancia commerciale dell’Italia, che nel 2016 è stata positiva grazie alle medie imprese (93 miliardi di euro il surplus per loro, calcola Coltorti) e non alle grandi (in deficit per 2,5 miliardi). Quanto meglio lo dice un altro indicatore elaborato dallo studioso della Cattolica: il valore aggiunto dei diversi tipi di industria, ovvero l’incremento di valore che una attività manifatturiera riesce a realizzare con i propri prodotti rispetto ai materiali che utilizza. Come si può vedere dalla figura sotto, nel 2014 - ultimo anno per cui ci sono i dati - le aziende dei distretti e del quarto capitalismo erano già riuscite a lasciarsi dietro il momento più buio, toccato nel 2009, e tornavano a puntare verso l’alto, abbondantemente sopra i livelli pre-euro del 1999. Al contrario, per le grandi imprese, è come se gli ultimi quindici anni fossero passati invano, perché il valore aggiunto - la ricchezza generata - nel 2014 era mestamente in linea con quello del 1999: un’era geologica fa, se si considera quanto è cambiata l’economia in pochi anni.




Per quegli imprenditori, meno conosciuti al grande pubblico, che si addensano attorno a città di provincia come Bergamo e Brescia, Vicenza e Treviso, lungo la via Emilia, attorno a Firenze o tra Ancona e Ascoli, e che animano settori industriali tradizionali come la meccanica, l’alimentare, le piastrelle, l’arredamento, la pelletteria, è una bella rivincita. Come nota Massimo Mucchetti, presidente della commissione industria del Senato e promotore dell’iniziativa sullo “Stato azionista” di lunedì 22, anche le imprese dei distretti hanno smentito le Cassandre che prevedevano una loro crescente marginalizzazione.

Pure loro, come i gruppi pubblici, sono in qualche modo aziende “sbagliate”, ha scritto Mucchetti in un articolo pubblicato sul nuovo numero della rivista “ItalianiEuropei”, in libreria nei prossimi giorni. Osserva Mucchetti: molti economisti - compresi quelli della Banca d’Italia - le hanno accusate di seguire «pigramente» specializzazioni produttive ormai superate e di avere una struttura proprietaria troppo familiare per riuscire a stare al passo con l’economia globalizzata e digitalizzata. Eppure sono state proprio le multinazionali tascabili a «tamponare le cadute e gli errori di quelle grandi», che avrebbero dovuto avere specializzazioni più moderne, ritenute «giuste» da molti economisti.

Investimenti cercasi
I numeri che rafforzano questa lettura dei fatti, come vedremo, sono parecchi. Il problema, però, è cercare di leggere questi fenomeni per impedire che continui lo smantellamento del sistema produttivo nazionale, che in questi anni è andato accelerando. Nessuno può dirsi contrario a priori all’acquisizione di imprese italiane da parte di investitori stranieri, anzi. Nel suo articolo il senatore Mucchetti cita due esempi. Il primo è quello dell’Ansaldo Energia, l’azienda partecipata dalla società pubblica Cassa depositi e prestiti in cui è entrata, di recente, la cinese Shanghai Electric.

Per la società genovese, che impiega 4.500 persone e costruisce turbine e macchinari per la produzione di energia, il nuovo socio arrivato dall’Asia può dare infatti opportunità commerciali che prima non esistevano e che possono essere decisive per costruirsi un futuro. Il secondo esempio è quello della Ferretti di Forlì, un gruppo che costruisce yacht e che era finito a un passo dal dissesto per effetto delle operazioni finanziarie effettuate dai vecchi proprietari e dai fondi di private equity. Anche qui il nuovo socio è cinese, la Shangdong Heavy Industries, che rilevando la società italiana ha evitato il fallimento di un gruppo che controlla alcuni marchi storici della nautica.

Non è dunque una questione di nazionalità, ma dei progetti coltivati dalle imprese e da chi si candida a guidarle. Perché, infatti, i grandi gruppi italiani sono scivolati così in basso? L’analisi di Coltorti mette a fuoco diversi problemi. Le grandi multinazionali tedesche, ad esempio, tra il 1992 e il 2014 hanno quasi triplicato i loro attivi di bilancio (per la precisione, li hanno accresciuti del 278 per cento), e cioè le risorse utilizzate per condurre i loro affari; quelle britanniche hanno fatto ancora di più (più 329 per cento), mentre quelle italiane si sono fermate a un più142 per cento.

E ancora: gli investimenti tecnici - in macchinari, impianti, fabbricati - dei grandi gruppi italiani, che nel 1992 erano piuttosto elevati, si sono via via appiattiti, stabilizzandosi su livelli inferiori rispetto ai maggiori Paesi d’Europa. E nel 2014, prima che il governo di Matteo Renzi intervenisse con specifiche agevolazioni, erano più bassi di quelli britannici e francesi, quasi la metà di quelli tedeschi: 6,9 per cento contro 12,8, in termini di nuovi investimenti rispetto allo stock di quelli già a bilancio.

Il nuovo Centauro
Questi dati si accompagnano ad altri che spingono Coltorti a parlare di una vera e propria Waterloo della grande industria italiana, rappresentata ormai soltanto da quella pubblica. Di qui non solo l’esigenza di preservare i gruppi che restano, ma anche di tentare di recuperare le posizioni perdute, che a giudizio del docente della Cattolica si può fare lavorando sulle nuove tecnologie, puntando sui settori in cui siamo ancora forti, valorizzando le imprese dei territori e le aziende che restano sotto il controllo dello Stato. Nel suo ruolo politico, Mucchetti, eletto in Senato con il Pd e rimasto nel partito nonostante posizioni in contrasto con il segretario Matteo Renzi, si spinge ancora più in là, proponendo un articolato pacchetto di misure.

Il cuore prevede di mettere al centro di una nuova politica dello Stato in economia un’istituzione pubblica come la Cassa depositi e prestiti, la società controllata dal Tesoro e partecipata dalle fondazioni bancarie che nel tempo si è ritrovata a possedere rilevanti quote azionarie in diverse società pubbliche, come le Poste, l’Eni, la Saipem, Terna e altre ancora.

Analisi
Così gli stranieri si stanno comprando l'Italia
19/5/2017
Usando la vecchia definizione di “Centauro” usata dal banchiere Enrico Cuccia per la sua Mediobanca, banca d’affari metà pubblica e metà privata, Mucchetti propone di far diventare la Cassa il nuovo Centauro dell’economia italiana. Il governo dovrebbe rafforzarla patrimonialmente, girandole tutte le quote azionarie grandi e piccole che il Tesoro ancora detiene in tante aziende, come Eni, Enel, Leonardo, Poste, nonché in Ferrovie, Anas e altre ancora. L’obiettivo dovrebbe essere quello di recuperare «una stabilità di fondo» degli interessi nazionali, e magari coinvolgere investitori terzi e istituzionali che li condividano, un po’ come accade in Francia «nei rapporti della classe politica con la grande industria». Le risorse investite da questi nuovi azionisti potrebbero essere destinate a progetti ambiziosi. Perché la nuova Cassa dovrebbe fare un ulteriore passo in avanti, acquistando «in modo amichevole» partecipazioni nei principali gruppi industriali e finanziari, al fine di «segnalare al mondo l’interesse del governo italiano a che le grandi imprese possano meglio svilupparsi in patria e all’estero, e non diventino teatro di scorrerie e di processi di concentrazione a condizioni sfavorevoli al Paese».

L’elenco messo nero su bianco da Mucchetti è da tuoni e fulmini, per gli assetti del potere materiale italiano: c’è Fiat-Chrysler della famiglia Agnelli, con il suo nuovo abito olandese e c’è la Pirelli che Marco Tronchetti Provera ha ceduto ai cinesi di Chemchina, oggi alle prese con una complessa operazione di aggregazione con un altro gruppo controllato dal governo di Pechino, la Sinopec. Ci sono aziende storiche attive in settori strategici, come Magneti Marelli e Prysmian, ma non mancano banche quali Unicredit e Intesa Sanpaolo, nonché compagnie di assicurazioni come Generali e Unipol.

Tra Donald e Angela
Va ripetuto: l’idea non è nazionalizzare tutto, facendo fuori le compagini degli attuali azionisti. Piuttosto, la proposta che verrà portata all’attenzione della politica lunedì 22 maggio, quando questo numero de “L’Espresso” sarà in edicola, ha l’obiettivo di affrontare un problema che anche gli altri Stati stanno cercando di risolvere. Negli Usa, scrive Mucchetti, il presidente Donald Trump può esercitare le sue pressioni per il “buy american”, perché il governo di Washington ha una forza che l’Italia non può immaginare nemmeno da lontano. In modo diverso sta facendo la Germania di Angela Merkel, che può contare su un sistema finanziario più solido di quello italiano, dove la fitta rete di partecipazioni incrociate mette al sicuro gli assetti e la proprietà dei maggiori gruppi industriali.



E anche la Francia ha le sue carte da giocare, come si può dedurre da un altro dei dati elaborati da Coltorti. Dal 1992 al 2014 le multinazionali transalpine avevano fatto addirittura peggio di quelle italiane, aumentando i loro attivi di bilancio del 119 per cento, meno del nostro già risicato 142 per cento. Negli ultimi anni, però, i gruppi francesi sembrano essersi decisi a passare alla riscossa, puntando sul più fragile dei Paesi vicini, ovvero l’Italia. Di qui le acquisizioni di Edison da parte del colosso pubblico Edf, oppure l’ingresso in Telecom Italia e in Mediaset da parte del gruppo Vivendi del finanziere Vincent Bolloré.

L’Italia questi mezzi non li ha e quando i suoi gruppi provano a muoversi all’estero non mancano ostacoli da parte dei governi locali. La dimostrazione è recentissima: l’infinito e faticoso negoziato toccato alla Fincantieri - l’azienda controllata dalla Cassa depositi e prestiti che costruisce navi e in Italia occupa quasi ottomila persone - per poter rilevare dai coreani la gestione dei cantieri francesi Chantiers de l’Atlantique, nei quali Parigi ha voluto a ogni costo conservare una minoranza di blocco per poter incidere sulle scelte industriali del gruppo italiano. Di qui la necessità di difendersi, con i mezzi che ci rimangono.

Nessuno può nascondersi la difficoltà di un progetto come quello tratteggiato da Mucchetti. Lo stesso senatore avverte: «Lo Stato può esercitare in modo utile la funzione di azionista di controllo o anche solo di minoranza se la classe politica nel suo complesso è in grado di dare continuità, al di là dei governi che cambiano, all’impegno pubblico verso le società partecipate», scrive. Ma non basta. La politica dovrebbe trovare il modo di mettere al riparo le scelte gestionali della nuova Cassa depositi e prestiti formato Centauro dalle tentazioni che un simile concentrato di potere inevitabilmente si porterebbe dietro, evitando di ripetere gli errori del passato.

La lezione dell’Iri
Come ricorda Franco Amatori, uno degli storici italiani dell’economia più noti a livello internazionale, al culmine del miracolo economico degli anni Sessanta - ai tempi della grande Iri e degli altri colossi statali - l’impresa pubblica divenne sempre più lo strumento del potere politico. E i dirigenti si ritrovarono di fatto deresponsabilizzati, spinti a prendere decisioni d’investimento o di localizzazione delle fabbriche che derivavano da obiettivi elettorali. Il caso citato dall’economista che insegna all’Università Bocconi è quello di Giuseppe Luraghi, uno degli artefici del successo nel Dopoguerra dell’Alfa Romeo statale, cacciato ben due volte - prima dalla Finmeccanica e poi dall’Iri - dall’invadenza della politica nei progetti della casa automobilistica, che i partiti dell’epoca volevano asservire alla necessità di consolidare i consensi nelle urne.

Di più: in ogni attività imprenditoriale esistono dei rischi, che anche a prescindere dalle pressioni politiche possono mettere a repentaglio il successo dell’iniziativa. Fu così che un progetto innovativo e dirompente come l’Alfasud di Pomigliano d’Arco, con cui il marchio milanese voleva sfidare il quasi monopolio della Fiat nell’automobile di massa, si scontrò con variabili che i manager non avevano previsto, come l’aumento del prezzo del petrolio e la turbolenza sociale e sindacale dell’Italia degli anni Settanta.

Per questo motivo, sostiene l’economista della Bocconi, se davvero diventasse il perno attorno al quale far ruotare il futuro dell’industria nazionale, un’istituzione come la Cassa dovrebbe essere messa nelle condizioni di poter sbagliare una mossa, ma di farlo unicamente per ragioni industriali, non di mero calcolo politico.

Fatte queste premesse, dice Amatori, la situazione attuale è così difficile che qualcosa va certamente tentato. Un’ipotesi è far sì che i manager chiamati a guidare i gruppi pubblici rimasti in piedi possano trovare un interlocutore capace di tenerli sotto controllo e, allo stesso tempo, aiutarli a definire le strategie. «Questo interlocutore potrebbe certamente essere la Cassa, a patto che conservi una struttura agile e il più possibile impermeabile alle pressioni. Ma anche progetti come quello delineato dal senatore Mucchetti non possono essere bocciati a priori», sostiene ancora Amatori. «Le sue possibilità di successo», dice, «si potranno misurare solo empiricamente, vedendo come andrà a finire».