Oggi il mondo è diviso tra chi pensa di avere un futuro e chi si sente uno scarto umano. Un contrasto che genera spesso depressione e violenza. E che mette a rischio la democrazia
Su Youtube si trovano le immagini di un esperimento condotto su due scimmie cappuccine, poste in due gabbie vicine e trasparenti. Ad ambedue è chiesto di prendere un sassolino e restituirlo all’operatrice. In premio ricevono un pezzo di cetriolo. Il meccanismo, ripetuto varie volte, funziona fino a quando a una delle due viene dato, come premio, un acino d’uva. L’altra vede l’ingiustizia e quando, per la solita attività, riceve ancora il cetriolo ha una reazione violenta: lancia il cetriolo contro l’operatrice e comincia a scuotere la gabbia. E se si ripete l’esperimento la rabbia della scimmia aumenta a ogni “fregatura”.
Abbiamo ormai varie evidenze scientifiche, basti pensare a quelle dell’economia comportamentale basata sulle neuroscienze, che la disuguaglianza, soprattutto se ritenuta permanente, non stimola necessariamente gli esseri umani a migliorare la propria condizione, ma spesso genera comportamenti antagonistici o violenti. Anche gli studi sull’economia della “felicità” mostrano l’influenza negativa su quest’ultima esercitata dalle disuguaglianze, in particolare di quelle osservabili nel territorio in cui si vive.
Gli economisti, i sociologi e i filosofi hanno individuato due forme principali di disuguaglianza: quella di risultato, in cui qualcuno “è” più ricco un altro, e quella di opportunità, per la quale i due differiscono anche per le diverse possibilità da cui partire per realizzare le proprie aspirazioni. Ebbene, la forte differenza di oggi è tra chi pensa di avere comunque un futuro e chi sente di essere uno “scarto umano” (per usare il linguaggio della “Laudato sì” di Papa Francesco) di cui nessuno si curerà, anche se allo stato attuale la situazione non è necessariamente così disastrosa.
Come ci insegnano gli psicologi, la reazione di chi si sente uno “scarto” (effettivo o potenziale) può essere di tre tipi: la depressione, la ripartenza o la reazione violenta. Ovviamente, i social media enfatizzano il senso di “comunità” di chi esprime attraverso di loro la propria frustrazione. La teoria delle “lunghe code”, usata per il disegno del web 2.0 a fini commerciali, ci dice che sommando le piccole comunità di scontenti per motivi diversi si ottiene una comunità ampia, la partecipazione alla quale rafforza il convincimento del singolo arrabbiato di essere parte di un “popolo” che si ribella alle élite, colpevole di averlo lasciato solo.
Destra e sinistra hanno avuto da sempre idee molto diverse su come affrontare le disuguaglianze, soprattutto quelle di risultato, ma credo che ambedue non abbiano compreso appieno che la principale ingiustizia di cui stanno soffrendo i paesi “ricchi” sia di tipo intergenerazionale (cioè tra generazioni diverse), la quale si somma a quella intragenerazionale. In altre parole, venuta meno l’utopia della crescita economica infinita e per tutti, le società capitalistiche mature appaiono incapaci di offrire una prospettiva convincente per il futuro. L’esito è la nascita di movimenti “non convenzionali” che propongono soluzioni radicali di natura diversa, ma accomunate (specialmente quelle di destra) da un’ottica “retrotopista”, direbbe Bauman, basata cioè sula promessa di poter “tornare indietro” a un’età dell’oro mai esistita nei fatti: non a caso Let’s make US great again è il motto trumpiano, non molto diverso da quello usato in Germania e Italia un secolo fa.
L’alta correlazione, relativa ai diversi vari paesi del mondo, tra insoddisfazione economica e sfiducia nella democrazia indica che anche la sostenibilità delle istituzioni è a forte rischio, il che dovrebbe imprimere un cambiamento profondo nelle politiche economiche, sociali e ambientali del nostro paese e dell’Unione europea, nella linea finalmente indicata dalla presidente-eletta della Commissione Ursula von der Leyen, che appare aver recepito molte delle proposte (dalla “Garanzia Bambini” al Green new deal, dal sussidio europeo di disoccupazione alla scelta dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile come architrave di tutte le politiche europee) contenute nel Rapporto “Uguaglianza sostenibile” pubblicato all’inizio del 2019, al quale abbiamo lavorato anche Fabrizio Barca e io.
Attenzione, però, a sottostimare gli altri segnali che vengono dalla società, come quello proveniente dal movimento globale degli studenti che, utilizzando i social media, organizzano dimostrazioni e altre iniziative originali per richiamare i potenti a lottare contro la crisi climatica in nome della giustizia intergenerazionale. Ecco il terreno dove cercare di battere gli “odiatori retrotopisti” con una “utopia sostenibile”. Ma per portare il mondo su un sentiero di sostenibilità economica, sociale, ambientale e istituzionale serve radicalità nell’approccio culturale e politico, non passare una “mano” di verde sulle solite soluzioni costruite su idee novecentesche. In questa prospettiva, andrebbe inserito in Costituzione il principio della giustizia intergenerazionale, oggi assente, in aggiunta a quello della giustizia intragenerazionale previsto dall’art.3, così da orientare le politiche al rispetto di ambedue. “Vasto programma”, avrebbe detto de Gaulle, imitato da tanti benpensanti contemporanei, seduti comodamente sul divano a mangiare pop corn. Ma l’unico che ci consentirebbe, senza vergognarci, di guardare negli occhi le nostre giovani e i nostri giovani che ci chiedono di aiutarli a salvare il mondo e noi stessi.
L'autore è economista e portavoce dell’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile