
Tipo singolare questo Windhorst. L’annuncio dei tagli di personale è arrivato dopo che per settimane i suoi manager avevano negato ogni ipotesi di intervento per ridurre il numero dei dipendenti. Anzi, a metà maggio, un comunicato della proprietà prometteva nuovi investimenti per 23 milioni con l’obiettivo di sostenere lo sviluppo del marchio bolognese. Il 27 giugno, mentre sul fronte italiano batteva in ritirata, Windhorst ha speso 125 milioni per comprare il 37,5 per cento dell’Herta Berlino, squadra di calcio che nella classifica finale della Bundesliga non è andata oltre l’undicesimo posto. Risale a febbraio, invece, l’intervento per salvare dal fallimento i cantieri navali di Flensburg, sulla costa del Baltico.Tutti affari ad alto rischio: decine di milioni puntati su scommesse dai ritorni economici quantomeno incerti.
Chi conosce Windhorst, però, non si sorprende granché. Già venti anni fa i giornali parlavano di lui, appena maggiorenne, come un campione della New Economy, un ragazzo dal tocco magico capace di far soldi dal nulla. Da allora il finanziere partito dalla natìa Rahden, nel Nord della Germania, si è costruito la fama dello speculatore senza tetto né legge, un investitore che ama scommettere sul rilancio di aziende dal futuro incerto. Nel portafoglio della sua holding Sapinda, da poco ribattezzata Tennor, troviamo le attività più disparate: miniere di carbone in Sudafrica, pozzi petroliferi nell’Asia centrale, piantagioni in Africa, una casa di produzione cinematografica francese e molto altro ancora. Un lungo elenco a cui nel febbraio dell’anno scorso si è aggiunta anche La Perla. I conti in rosso profondo della griffe emiliana avrebbero scoraggiato un normale imprenditore, ma non Windhorst, che contava di evitare il naufragio aggrappandosi a un marchio famoso nel mondo, con una rete commerciale consolidata e una fabbrica, quella di Bologna, dove si concentra un patrimonio di esperienze e saper fare con pochi eguali nel mondo, un patrimonio accumulato in oltre mezzo secolo di storia.
Era il 1954, infatti, quando la sarta Ada Masotti fondò l’azienda destinata in breve a diventare un simbolo della moda italiana. Lingerie elegante, prodotti di classe che conquistano la clientela più esigente. La storia di successo è proseguita anche dopo il cambio della guardia al vertice del 1981, quando la gestione passa ad Alberto Masotti, figlio della fondatrice. Il clima peggiora con il nuovo secolo. La Perla viene percepita come un marchio datato, lento ad adeguarsi al ritmo frenetico di un mondo sconvolto dalla globalizzazione. Il mercato è cambiato e non garantisce più i profitti di un tempo. E allora i Masotti tentano di correggere la rotta per mettersi in scia al nuovo che avanza. Mica facile. Servirebbero tempo e soldi, ma ben presto gli eredi di Ada Masotti si rendono conto che l’orologio della crisi corre troppo veloce e così si affrettano a cercare un compratore prima che sia troppo tardi, prima che i conti in perdita li costringano a portare i libri in tribunale.
In quel periodo, a metà del decennio scorso, La Perla viaggia con il bilancio in rosso di oltre 20 milioni su un giro d’affari intorno ai 150 milioni. E così, nel 2007 all’orizzonte spunta il fondo JH partners, dove JH sta per John Hansen, un finanziere californiano. La vecchia azienda padronale diventa una delle molteplici attività di un grande investitore internazionale, cioè Hansen, che per mestiere compra e vende società grazie ai finanziamenti raccolti sul mercato mondiale dei capitali. Il marchio finisce sotto controllo straniero, ma a Bologna si consolano pensando che almeno la fabbrica con i suoi 500 dipendenti non chiuderà i battenti come molti temevano. Il nuovo padrone americano viene accolto come una polizza per un futuro migliore.
Negli anni successivi, però, i conti non migliorano granché. E la situazione si complica ancora quando alle difficoltà dell’azienda si sommano i venti di tempesta che a partire dal 2008 scuotono dalle fondamenta l’intero sistema della finanza globale. Già nel 2010 JH Hansen è costretto a smentire le voci di un’imminente cessione della sua controllata italiana. La resa dei conti è però soltanto rinviata. Nello stabilimento bolognese torna la cassa integrazione e nel 2013 la procedura di concordato diventa l’extrema ratio per evitare il crack. La Perla finisce in vendita al migliore offerente, con i giudici del tribunale fallimentare a fare da arbitri. La spunta Silvio Scaglia, un manager che può contare sulla dote di oltre 800 milioni di euro incassati nel 2007 grazie alla vendita agli svizzeri di Swisscom del suo 18 per cento di Fastweb, la compagnia telefonica che aveva fondato otto anni prima.
Nel giugno del 2013 la griffe passa di mano con un’offerta da 69 milioni, di soli tre milioni superiore a quella di Sandro Veronesi, il patron del gruppo Calzedonia che già possiede marchi come Intimissimi e Tezenis. Lo sconfitto la prende male e in un’intervista a caldo, poche ore dopo il verdetto del tribunale, parla apertamente di «procedura ingarbugliata e poco trasparente». Veronesi definisce anche irrealistiche le promesse contenute nel piano industriale presentato da Scaglia. Gli scettici erano molti, all’epoca. «Come fidarsi di un manager senza nessuna esperienza nel campo della moda?», si chiedevano banchieri e analisti. Il nuovo padrone di La Perla fu prodigo di rassicurazioni. «Per me è una sfida personale», diceva l’ex capo di Fastweb, che nel frattempo aveva trasferito in Lussemburgo, al riparo dalle tasse, la sua holding personale.
Dopo qualche iniziale perplessità, a Bologna il nuovo investitore fu accolto a braccia aperte. Se non altro perché, grazie a lui, svanì l’incubo della cassa integrazione. Il lavoro in fabbrica ripartì alla grande, perfino con gli straordinari, e molti pensarono che Scaglia fosse davvero il profeta di un nuovo inizio dopo un decennio di guai. Era un’illusione, un miraggio. Adesso possiamo dirlo, con il senno di poi, alla luce dei dati di bilancio più recenti. Nell’esercizio 2017, La Perla ha chiuso i conti in rosso per 180 milioni, a causa di perdite su cambi e svalutazioni varie dell’attivo, su un fatturato di 133 milioni.
L’anno precedente l’azienda aveva viaggiato più o meno alla stessa andatura: 106 milioni di perdite. Nessun rilancio, quindi. Negli anni scorsi il gruppo ha cambiato rotta, ma non è riuscito a uscire dalla secche della crisi. La strategia raccontata nei piani societari di espansione su nuovi mercati, dal Giappone al Messico. Viene segnalata l’apertura di punti vendita in metropoli come Shanghai, Seul e San Francisco. E a portare acqua al mulino dei ricavi, in aggiunta all’intimo e ai costumi da bagno, avrebbero dovuto contribuire scarpe, borse e occhiali, nuove linee di prodotto tutte griffate La Perla.
Niente da fare: il fatturato non ha ripreso quota, mentre la merce invenduta si accumulava nei magazzini. I bilanci rivelano che a più riprese Scaglia ha pompato capitali freschi nelle casse aziendali allo stremo. Tra il 2014 e il 2017 l’azionista unico del gruppo ha versato oltre 350 milioni per tappare le falle nei conti. La fine della storia sembrava già scritta, ma ancora nell’agosto del 2017 il patron della griffe bolognese smentiva ogni disimpegno. «Non vendo», rispondeva sui giornali a chi gli chiedeva delle sue intenzioni. Tempo qualche settimana e la multinazionale cinese Fosun confermava di essere pronta a formulare un’offerta per La Perla. Offerta che però non è mai giunta a destinazione, perché il gruppo di Pechino si è ritirato in buon ordine dopo aver esaminato i conti dell’azienda.
E così si arriva a febbraio dell’anno scorso quando Windhorst chiude i giochi. All’epoca il nome dell’acquirente era pressoché sconosciuto dalle nostre parti, ma il venditore sapeva bene con chi aveva a che fare. La cessione dello storico marchio italiano era solo l’ultimo di una serie di affari in comune tra Scaglia e il patron del fondo Sapinda. I due partner, peraltro, non sempre hanno filato d’amore e d’accordo. Le cronache raccontano di una controversia finita davanti a una corte londinese e poi risolta a favore del manager italiano che a un certo punto reclamava da Windhorst mancati pagamenti per un’ottantina di milioni. Ordinaria amministrazione per il finanziere tedesco che nell’arco della sua lunga carriera è stato messo per due volte al tappeto dal fallimento delle sue holding e nel 2009 si è salvato da una condanna penale per appropriazione indebita restituendo 2,5 milioni a chi lo aveva denunciato.
Storie vecchie, se non fosse che proprio in questi giorni un’inchiesta del Financial Times ha tirato di nuovo in ballo i rapporti sul filo del conflitto d’interessi tra Windhorst e Bruno Crastes. Quest’ultimo è il manager a cui fa capo la gestione dei fondi col marchio H2O che, si è scoperto, hanno comprato una gran quantità di titoli di società legate al finanziere tedesco. Queste operazioni ad alto rischio sono state finanziate con i soldi dei sottoscrittori dei fondi, tra cui anche migliaia di italiani. Ebbene, è emerso che nell’elenco degli investimenti sotto accusa ci sono anche un centinaio di milioni di obbligazioni La Perla. In questo modo, quindi, i rischi della crisi infinita della griffe vengono scaricati sui risparmiatori, quelli che hanno acquistato quote dei fondi H2O. Mentre la finanza rapace brinda all’ennesimo salvataggio. Con i soldi degli altri.