Le esenzioni fiscali pesano sul bilancio pubblico per decine di miliardi. In qualche caso, come la detrazione dei mutui o delle spese sanitarie, favoriscono milioni di cittadini. Ma tra i beneficiari ci sono anche potenti lobby, come gli autotrasportatori, le banche, gli armatori. Che da anni bloccano ogni riforma

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l primo della lista è il bonus di 80 euro per tutti i lavoratori dipendenti che guadagnano meno di 26 mila euro l’anno. Lo sconto fiscale varato nel 2014 dal governo di Matteo Renzi costerà allo Stato 9 miliardi di euro nel 2019, distribuiti su oltre 11 milioni di beneficiari. In seconda posizione troviamo le detrazioni per la ristrutturazione delle abitazioni, che pesano per quasi 7 miliardi sui conti pubblici, poi l’esenzione Irpef della prima casa che vale 3,6 miliardi. Sono invece oltre 18 milioni gli italiani che ogni anno detraggono le spese sanitarie dalla dichiarazione dei redditi, con un risparmio, finanziato dall’Erario, di 3,3 miliardi. L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo: sono infatti oltre 500 le agevolazioni fiscali, sotto forma di deduzioni, detrazioni ed esenzioni, che lo Stato garantisce a particolari categorie di cittadini. Si va dalle detrazioni Irpef per le spese veterinarie al ribasso delle accise per gli autotrasportatori, dalla cedolare secca sugli affitti di abitazioni al credito d’imposta per le imprese armatoriali, giusto per citare alcune delle voci che compaiono nella lista ufficiale degli sconti. Un ginepraio gigantesco che si è esteso a dismisura nel corso degli anni.

Giuseppe Conte si riferiva proprio a questi benefici quando, lunedì 9 settembre, presentando il programma di governo alla Camera, ha citato anche «il riordino del sistema delle agevolazioni fiscali». L’obiettivo è chiaro. Un taglio netto di quelle che gli addetti ai lavori chiamano tax expenditures, spese fiscali in italiano, potrebbe rivelarsi una scorciatoia per racimolare una manciata di miliardi, almeno sei o sette secondo gli ottimisti, che andrebbero a finanziare la prossima manovra di bilancio. Conte non è certo il primo presidente del Consiglio che, alla ricerca affannosa di nuove risorse, si dice pronto a metter mano a questo capitolo del bilancio dello Stato. Già nel settembre 2015 il governo Renzi aveva istituito un’apposita commissione con il mandato di censire e analizzare le centinaia di provvedimenti, spesso ritagliati su misura di poche decine di beneficiari, che si erano andati accumulando nel tempo. Il passo successivo, secondo quanto annunciato all’epoca, doveva essere quello di «ridurre, eliminare o riformare le spese fiscali». Da allora, il rapporto annuale sulle tax expenditures è stato puntualmente presentato. L’ultimo della serie risale a ottobre 2018. Nessun governo, però, è mai davvero intervenuto per tagliare i sussidi ritenuti ingiustificati o eccessivi. Anche Giovanni Tria, ministro dell’Economia dell’effimero governo gialloverde, ha lasciato le cose come stavano. E adesso tocca al nuovo titolare del Mef, Roberto Gualtieri, affrontare un dossier a dir poco complicato.

Il neo ministro Gualtieri, già europarlamentare del Pd, è chiamato ad affrontare una questione preliminare, la stessa su cui si sono arenate le dichiarazioni di principio dei suoi predecessori. Da dove si comincia? Per rispondere servirebbe aver ben chiari i criteri politici con cui si sceglie di ridurre o eliminare un sussidio piuttosto che un altro. Stando ai numeri, infatti, ci sarebbe ampio spazio per intervenire. Secondo l’ultimo rapporto della commissione, l’onere complessivo per lo Stato delle 513 spese fiscali ammonta a circa 61 miliardi. Questa somma corrisponde al mancato gettito per casse dallo Stato per effetto degli sconti fiscali accordati a particolari categorie di contribuenti. Non tutte le tax expenditures sono uguali, però.

QUANTO COSTANO ALLO STATO LE ESENZIONI FISCALI
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L’elenco riportato nella tabella  riporta le quindici più importanti spese fiscali in termini di ricadute finanziarie sul bilancio pubblico. Questi pesi massimi assorbono da soli il 75 per cento del valore complessivo degli sconti. La lista comprende misure molto popolari che interessano milioni di cittadini, come il già citato bonus degli 80 euro o gli sgravi d’imposta per ristrutturare casa. Tagliare o abolire del tutto questi sconti fiscali esporrebbe quindi il governo a un rischio politico quantomeno pari, se non superiore, ai possibili benefici per il bilancio pubblico. Riesce difficile pensare che un governo impegnato a dare di sé un’immagine “di sinistra” possa decidere di far cassa racimolando qualche miliardo a spese di contribuenti con redditi modesti. Tra l’altro, misure come quelle che riguardano le ristrutturazioni edilizie servono anche a far emergere eventuali compensi in nero percepiti da chi esegue i lavori. In questo caso, quindi, il beneficio fiscale per il contribuente si trasforma in uno strumento di contrasto all’evasione fiscale, perché serve anche a illuminare redditi che altrimenti mai finirebbero nei radar dell’Agenzia delle Entrate guidata da Antonino Maggiore.

Conte e Gualtieri hanno ovviamente ben presenti rischi e difficoltà dell’intervento sulle tax expenditures. Non per niente nel suo discorso al Senato il presidente del Consiglio ha precisato che il riordino delle agevolazioni fiscali avverrà solo a patto di «salvaguardare la funzione sociale e redistributiva di questo strumento». Se queste sono le premesse, però, il margine di manovra a disposizione del governo si restringe di molto e secondo la quasi totalità degli analisti sono alte le probabilità che la giungla delle spese fiscali finisca per subire solo qualche taglio marginale.

Una possibile area d’intervento riguarda quelli che vengono definiti “sussidi dannosi”, cioè quei benefici fiscali che oltre a rappresentare un onere per il bilancio dello Stato provocano altri danni, per così dire, collaterali. È il caso dei Sad, una sigla che sta per sussidi ambientalmente dannosi. Secondo il ministero dell’Ambiente, che a luglio ha pubblicato un rapporto sul tema, gli sconti sotto forma di minori tasse e imposte con un impatto negativo sull’ambiente ammontano a 19,3 miliardi, quasi un terzo, quindi, delle spese fiscali complessive. Anche in questo caso le voci comprese nella lista sono le più disparate. Tra quelle maggiormente onerose per le casse pubbliche troviamo il parziale rimborso, a favore degli autotrasportatori, dell’accisa sul gasolio. Questa spesa fiscale vale da sola oltre 1,6 miliardi di euro l’anno in termini di minori entrate per l’Erario e di fatto funziona come un incentivo al trasporto su gomma, più inquinante rispetto a quello ferroviario. Anche il carburante «utilizzato per la navigazione aerea», come recita testualmente la norma, gode di un trattamento privilegiato che costa oltre 1,5 miliardi allo Stato. Vale invece circa 900 milioni l’anno lo sconto, in termini di minori imposte su benzina e gasolio, destinato alle imprese agricole.

A conti fatti si scopre quindi che questi tre maxi sussidi sui carburanti valgono qualcosa come 4 miliardi. Una somma a cui lo Stato accetta di rinunciare per finanziare gli affari di autotrasportatori, compagnie aeree e agricoltori. Il ministero dell’Ambiente ha anche calcolato quanto costa al bilancio pubblico il trattamento favorevole riservato al gasolio, su cui, come noto, gravano accise inferiori rispetto a quelle sulla benzina, nonostante il fatto che quest’ultima sia meno inquinante. Ebbene, lo sconto fiscale per il gasolio costa ogni anno al bilancio pubblico circa 4,9 miliardi, ovvero la somma che lo Stato incasserebbe se il prelievo sui due carburanti fosse parificato al livello di quello più tassato, cioè la benzina. Va detto che questa cifra sembra destinata a diminuire per effetto del calo delle vendite di auto diesel negli ultimi mesi.

Sulla carta, quindi, il governo potrebbe intervenire tagliando una parte di quei 19,3 miliardi di Sad, i sussidi ambientalmente dannosi. Basterebbe qualche sforbiciata per incassare svariati miliardi e dare una mano alla green economy, anche questa citata nel programma di governo. Facile a dirsi. All’atto pratico invece è facile prevedere che un taglio degli sgravi fiscali sul gasolio innescherebbe pesanti proteste da parte degli autotrasportatori. Pare complicato da gestire anche un incremento delle accise sul carburante per gli aerei proprio mentre la nuova maggioranza sta cercando di evitare il crack dell’ex compagnia di bandiera, l’Alitalia. Un motivo in più per dubitare che Conte e Gualtieri siano davvero in grado di vincere la battaglia delle spese fiscali.

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