
Un caotico stallo imbarazzante per l’America, che rischia di perpetuarsi con il Senato in mano ai repubblicani. «Qui di imbarazzante c’è solo Trump che nella notte delle elezioni se ne è uscito, a scrutinio ancora in corso, con un “abbiamo vinto” gratuito e immotivato», sbotta il pacato Allen Sinai, consulente di ben tre presidenti (Reagan, Bush Sr. e Clinton). «Io sono indipendente - ci tiene a precisare - ma lo spettacolo che abbiamo offerto di fronte al mondo con i risultati sospesi per giorni sotto il tiro di ricorsi e controricorsi, è indegno di un grande Paese».
Se un incubo agita i sonni degli operatori finanziari, questo è l’incertezza, conferma Brunello Rosa, docente della London School of Economics: «È esattamente ciò che si è materializzato all’indomani del voto, e sui mercati sono partite le montagne russe. La paura di trovarsi con un Paese spaccato inesorabilmente a metà, che era stata esorcizzata nei giorni precedenti tanto che si era avviata una fase di crescita perché si era ormai sicuri di una vittoria di Biden con ampi margini, ha lasciato il posto allo sgomento e alla tensione». Perché l’idea di una “valanga azzurra” piaceva tanto ai mercati? «Perché il programma dei Dem è sicuramente più espansivo, con grandi spazi per gli investimenti nelle infrastrutture, nella riforma sanitaria, nell’istruzione, negli interventi “green”».
Ora tutto torna in discussione. La valanga non c’è stata, e le riforme promesse da Biden partono con le gambe spezzate. «Chiunque sia il presidente, un quadro politico troppo polarizzato, senza la possibilità di avere una netta maggioranza in nessuno dei due rami del Congresso quale quello che si prefigura compromette la possibilità di varare riforme davvero significative», spiega Edoardo Campanella, analista internazionale di Unicredit: «Sulle leggi di spesa, la situazione di stallo è la peggiore, perché non è vero come si dice che l’America ha possibilità di deficit e di indebitamento infinite. Devono invece essere rispettati precisi steccati dettati dalla costituzione e dalle successive leggi di bilancio: a ogni importante progetto dev’essere affiancato un altrettanto massiccio finanziamento, sia esso con nuove tasse o programmi di spending review. Il tutto presuppone un progetto coerentemente portato avanti dall’amministrazione e dal Congresso. Quando si determina la possibilità di ostruzionismi incrociati, come sta succedendo in America, la paralisi è quasi totale».
[[ge:rep-locali:espresso:285348364]]
Specialmente quando le divergenze fra le due visioni politiche appaiono inconciliabili. Biden aveva annunciato l’intenzione di riportare al 28% le tasse sulle aziende che Trump aveva tagliato dal 35 al 21% ma i repubblicani che sono maggioranza al Senato potranno opporsi in modo probabilmente invalicabile. The Donald aveva portato l’America fuori dagli accordi di Parigi sul clima e Biden vuole rientrarci immediatamente ma si scontrerà con il muro opposto dalla destra. Tutti i provvedimenti a favore dell’hi-tech, dell’energia rinnovabile, della ricerca in nuovi settori, si scontreranno con la difesa a oltranza del vecchio settore energetico e manifatturiero.
Su ogni misura serve il voto parlamentare, e lì scoppia la rissa. «Quando un progetto di legge economico comporta un sostanziale cambiamento di vedute o addirittura una svolta nell’orientamento politico fin lì seguito le tensioni che ne derivano hanno il risultato di bloccare tutto oltre che di dividere l’opinione pubblica», aggiunge Campanella. Gli impegni in deficit richiedono una volontà politica precisa, coerente, forte, per convincere la comunità globale degli investitori che non stanno finanziando un’avventura ma un piano ben determinato. Altrimenti diventa difficile raccogliere i capitali: non c’è più il “privilegio esorbitante” del dollaro, come chiamava Valery Giscard d’Estaing quello ostentato dagli Stati Uniti ai tempi della Nasa o delle Star Wars di Reagan. «E non è neanche detto, non è una disposizione divina, che il dollaro debba restare la moneta dominante per sempre», puntualizza Guntram Wolff, direttore del think-tank Bruegel di Bruxelles.
Eppure nell’estenuante battaglia elettorale entrambi gli schieramenti erano preoccupati, almeno in economia, per le stesse questioni: finanziare la ripresa post-Covid e risolvere i rapporti con la Cina. Una coincidenza di priorità che è finita affogata nelle divisioni. Sulla pandemia l’intervento dell’amministrazione Trump era stato tempestivo, valorizzato dall’efficiente sinergia con la Fed. All’inizio di marzo era stato approvato - con rimarchevole bipartitismo - il Cares Act da 3mila miliardi di dollari, sufficienti a una prima serie di sussidi e a finanziare la ricerca del vaccino. Per quanto riguarda i rapporti con la Cina, entrambi gli schieramenti sono consapevoli che il problema esista: «Solo è diverso il modo per affrontarlo e confrontarsi con la controparte di Pechino», spiega l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, che dopo una lunga carriera diplomatica presiede l’Istituto affari internazionali.
«I repubblicani vogliono farlo con aggressività, i democratici con diplomazia, ma è chiaro che vanno affrontate questioni quali il dumping sul costo del lavoro e quello ambientale, dallo sfruttamento dei minori all’inesistente attenzione agli standard internazionali di tutela ecologica. La Cina deve poi chiarire che non sfrutterà con una raccolta indiscriminata di dati personali la supremazia nella tecnologia 5G, che non a caso è stata bandita prima in America e ora anche in molti Paesi europei che cercano di rilanciare le reti Nokia ed Ericsson. E c’è infine l’annoso problema della tutela del copyright e della proprietà intellettuale. Fin qui le dispute economiche: sul sottofondo resta la questione dei diritti umani».
Tutti problemi riconosciuti da entrambi i partiti ma impossibili da affrontare insieme. Non è storia di oggi: ha caratterizzato l’intera amministrazione Trump ed è diventata drammatica quando il fattore Covid ha sconvolto la vita e i programmi di ogni americano malgrado il negazionismo del presidente. Per fortuna, mentre i candidati erano impegnati a scambiarsi accuse e contumelie, la Fed ha intensificato un capillare sostegno all’economia.
A fine anno si supereranno i 6mila miliardi immessi nel sistema, un quantitative easing assai maggiore di quello che risolse la crisi finanziaria del 2008-09. C’è di più: da quando - al summit di Jackson Hole a fine agosto - il presidente della banca centrale Jerome Powell ha assicurato che i tassi resteranno bassi anche se l’inflazione salirà sopra la fatidica soglia del 2%, l’impegno della Fed si è concentrato sulla disoccupazione. «La novità è che ora vengono monitorati con maggior attenzione i numeri sulla disoccupazione», spiega Julien Tisserand, fund manager della Edmond de Rothschild: «Non basta più la cifra assoluta di quanti hanno un lavoro, perché questo lavoro può essere un miserrimo part-time di bassa qualifica o una sottopagata sporadica collaborazione. Si guarda alla realtà del lavoro, alla sua consistenza e alla sua continuità. La Fed predisporrà le condizioni di politica monetaria in modo tale da affrontare le “carenze occupazionali” come viene indicato nei nuovi obiettivi».
Si cerca insomma non solo una bassa disoccupazione ma la migliore qualità del lavoro. «L’impegno congiunto di Fed e Congresso - aggiunge Tisserand - ha garantito un sussidio straordinario di disoccupazione in primavera di 600 dollari per settimana, ridotti a 300 dall’estate quando si sono esauriti i fondi del Cares Act e l’esacerbarsi della competizione politica ha impedito l’approvazione di ulteriori leggi di sostegno, per cui il governo ha dovuto tamponare con atti amministrativi la carenza di fondi per non lasciare senza protezione i disoccupati».
Specialmente nella prima fase, commenta Marco Mossetti, gestore patrimoniale di Credit Suisse specializzato negli Stati Uniti, «molti dei nuovi disoccupati hanno guadagnato assai di più di quando erano occupati, e così si spiegano il tasso di risparmio inusualmente alto, il fatto che non si è registrata un’epidemia di mutui non pagati come in precedenti occasioni, il boom dei consumi che è stato una causa non secondaria della ripresa record del 33% nel terzo trimestre». I sostegni altrettanto generosi a favore delle aziende hanno a loro volta evitato un’ondata di fallimenti. «Ma ora con la recrudescenza della pandemia parallela a quella europea tutto diventa più difficile», dice Mossetti: «La ripresa dei lockdown pur locali e il calo della domanda dovuto alla paura che torna a diffondersi, provocheranno una frenata della crescita nel quarto trimestre: si stima un -2% nel Pil negli ultimi tre mesi. La previsione per l’intero 2020 comunque resta migliore di quella europea: un 3,9% di crescita negativa contro il -8% del vecchio continente».
L’anno della verità sarà il 2021: «L’America ha bisogno di un nuovo massiccio piano di stimolo, ma gli scontri congressuali inevitabilmente lo ridurranno», conclude Nouriel Roubini, il guru della New York University. «In queste schermaglie politiche sembra che ci si sia dimenticati che siamo nel mezzo della peggior recessione globale da un secolo: senza ulteriori decisi interventi coordinati con la banca centrala qualsiasi ripresa sarà anemica e il mondo intero, già alle prese con la deglobalizzazione e la balcanizzazione delle catene del valore, ne soffrirà pesantemente».