Serve cambiare mentalità, agire in fretta, promuovere interventi pubblici e non sottovalutare il tema delle disuguaglianze. In poche parole, bisogna fare il contrario rispetto alla crisi del 2008

Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri
«L'unica funzione delle previsioni economiche è quella di far apparire rispettabile l’astrologia». Questa frase, attribuita a John Kenneth Galbraith, famoso economista canadese morto nel 2006, mi è rivenuta in mente leggendo le note elaborate in questi giorni da alcuni istituti su ciò che la crisi causata dal Coronavirus vorrà dire in termini di dinamica del Prodotto interno lordo (PIL) mondiale o di un singolo Paese. In realtà, come Galbraith sapeva bene, in certe condizioni (come le attuali) il dato previsto ha poco valore, ma non il processo attraverso cui si giunge a quel dato. Perché da esso dipendono gli interventi che la politica può mettere in campo per contrastare previsioni negative e cambiare il corso della storia. Vediamo allora quali sono le principali variabili in gioco e quelle che molti economisti tendono a dimenticare quando usano modelli previsionali (alla cui costruzione mi sono dedicato per molti anni).

Come scrivevo due settimane fa, tutti riconoscono che si tratta di uno shock di proporzioni enormi, esattamente per le ragioni che avevo elencato (impatto simultaneo sulla domanda e sull’offerta, su tanti settori contemporaneamente, livelli alti delle quotazioni dei mercati azionari). Se poi la politica commette errori di comunicazioni (come nel caso della presidente della Bce Christine Lagarde) o reagisce in ritardo (come sta accadendo in alcuni Paesi, europei e non), la volatilità dei mercati può diventare ancora più elevata e, in un momento in cui prevale il pessimismo, produce tendenze al ribasso. E ciò accade nonostante il fatto che gli interventi di sostegno annunciati dai governi e dalle banche centrali delle principali aree industrializzate siano senza precedenti, o quasi.

Come sempre accade in questi casi, prende il sopravvento la componente psicologica dei cittadini-lavoratori-consumatori-risparmiatori, degli imprenditori-investitori-innovatori e degli operatori finanziari che sono all’incrocio delle decisioni dei primi e dei secondi. Tanto più che non è chiaro quanto durerà l’emergenza sanitaria, da cui derivano ovviamente le restrizioni ai movimenti delle persone e delle merci e ad attività economiche che comportano il contatto diretto tra le persone.

Ecco, questa è la prima cosa che i modelli con cui si fanno le previsioni normalmente tendono a trascurare è proprio la psicologia. La teoria economica dominante si basa sulla “razionalità” degli operatori, il che condiziona il modo in cui si fanno le previsioni e si valutano gli effetti degli interventi di politica economica. Ovviamente, nella pratica le autorità cercano di condizionare la psicologia degli operatori economici attraverso annunci, più o meno riusciti. Ma ciò non viene necessariamente colto dai modelli previsionali, il che potrebbe condurre a gravi errori di valutazione, sia quando prevale il pessimismo, sia nel momento in cui ci sarà l’auspicato rimbalzo.

Ma c’è una seconda cosa che rischia di essere sottovalutata dai modelli, e quindi dalla politica: l’effetto differenziato della crisi e delle misure messe in campo sui ricchi, sul ceto medio e sui poveri. È evidente che la crisi colpirà, e anzi sta già colpendo, in modo diverso le diverse categorie: lavoratori dipendenti, “marginali” (lavoretti, anche in nero), autonomi e chi un lavoro non ce l’ha; chi dispone di adeguati risparmi e chi non li ha; chi è indebitato e chi non lo è; chi già beneficia di strumenti di welfare e chi è fuori dal circuito; ecc. Ed è altrettanto evidente che una crisi come l’attuale mette a rischio categorie che finora si sentivano “abbastanza” al riparo, il che determina un impatto sulla psicologia collettiva senza precedenti.

Cosa può fare, dunque, la politica per considerare questi due fattori così importanti ma scarsamente considerati nei modelli su cui essa dovrebbe basarsi? La prima è quella di mettere all’opera i migliori esperti disponibili per immaginare come far sì che l’uscita dalla crisi sia “esplosiva” in senso positivo, cioè non segua una dinamica “lineare” ma fortemente “non lineare”. Questo vuol dire pensare subito a come creare condizioni fortemente diverse rispetto a quelle che hanno caratterizzato l’evoluzione economica italiana degli ultimi anni.

L’uscita dalle crisi del 2008-2009 e del 2011-2012 è stata, per l’Italia, lenta, parziale e peggiore di quelle di altri Paesi. Non possiamo permetterci un analogo percorso anche all’uscita di questa crisi. Per questo, il governo dovrebbe creare ora, accanto all’unità di crisi, una “unità di resilienza” con esperti delle diverse materie, che propongano interventi radicali per offrire nuove opportunità, rimuovere ostacoli (nello spirito dell’articolo 3 della Costituzione) e avvii un nuovo ciclo di sviluppo molto più sostenibile sul piano sociale e ambientale, oltre che economico. Insomma, si tratta di “rimbalzare avanti” e non ”indietro” dove eravamo solo poche settimane fa, quando denunciavamo disuguaglianze sociali e territoriali inaccettabili, danni gravissimi all’ambiente e alla salute delle persone.

La seconda è di considerare attentamente gli effetti sulle disuguaglianze dei singoli interventi. Fabrizio Barca e Cristiano Gori, con il Forum Disuguaglianze e Diversità, hanno mostrato come altri paesi stiano reagendo usando strumenti esistenti o mettendo in campo nuovi strumenti proprio per evitare che gli interventi urgenti, per quanto ben intenzionati, creino nuove disuguaglianze. L’Italia già dispone di vari strumenti, dalla Cassa integrazione guadagni al reddito di cittadinanza e molti altri, il cui uso andrebbe orientato alle diverse categorie di vulnerabili, individui, famiglie e imprese, prima di inventarne di nuovi. Il governo dovrebbe quindi condurre un’analisi di impatto delle singole misure sulle disuguaglianze, anche territoriali, e renderla pubblica, come parte dell’iter parlamentare dei provvedimenti, così da poterli correggere in corso d’opera, evitando di sprecare le risorse disponibili.

In conclusione, non si può affrontare questa crisi con la mentalità con cui si sono affrontate le precedenti. Il modo in cui si disegnano e si annunciano gli interventi ha un ruolo fondamentale sulla psicologia collettiva e quindi sul modo con cui le persone vedranno il futuro e sulla loro voglia di ripartenza. Ma bisogna prepararsi adesso per quando l’emergenza sanitaria terminerà e il fatto di averla affrontata prima di altri paesi potrebbe darci un breve vantaggio temporale ai blocchi di ripartenza. Ma bisogna prepararsi ora allo scatto, rifiutando la logica di quella canzone dei Pooh “Ci penserò domani”.

Enrico Giovannini è portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile