Dal tessuto al taglio, dalla cucitura fino alla fornitura al personale medico di tute, cuffie, camici. Tante piccole e medie fabbriche specializzate nell'alta moda hanno deciso di unirsi per affrontare l'emergenza. «Non è un singolo qui a fare la differenza. Ma tutto il distretto. Solo insieme possiamo trovare soluzioni»

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Carpi, provincia di Modena. Gloria Trevisani è al telefono da ore: con gli operai che stanno sanificando l’azienda, i clienti che chiedono come andrà, l’associazione di categoria che coordina gli sforzi per il "dopo". Quando aveva 14 anni suo papà, operaio in una grossa ditta del territorio, voleva che si iscrivesse a una scuola per diventare segretaria - un buon posto. Ma lei si si rifiutò. Venne mandata a lavorare in una fabbrica di tessuti. A 18 anni aprì la sua prima impresa. Adesso è la titolare della "Crea Si", 17 dipendenti di cui 16 donne, specializzate in progettazione e campionari per marchi d’alta moda.

«Le prototipiste sono a casa già da una settimana; lavorano una a fianco all’altra, proteggerle adeguatamente era impossibile. La salute viene prima di una giacca», spiega, mostrando il dna che ha dato forma al territorio. Modelliste e dipendenti potrebbero comunque tornare presto in ditta insieme a lei. Alla giusta distanza l’una dall’altra, e con una nuova missione.

Nella corsa per dare supporto al paese, c’è infatti anche il distretto della moda di Carpi. A differenza dei colossi dell’industria o del fashion che si sono mossi per riconvertire macchinari per produrre mascherine, qui a partire è un intero comparto. Un distretto che comprende decine di medie, piccole e mini società. Capaci di mobilitare, insieme, l’intera filiera: dalla particella zero di un tessuto alla confezione chiusa, imbustata e spedita. «Tante imprese mi hanno chiamato dicendo: noi ci siamo, che facciamo? È un rete diffusa, salda, che ha voluto dare disponibilità per aiutare operatori e cittadini nell’emergenza», racconta Stefania Gasparini, assessore e vice sindaco del comune: «Vogliamo farlo seriamente, senza improvvisare. La produzione sarà avviata solo quando avremo i risultati dai test sui primi tessuti. Se sarà assicurato che garantiscono la protezione sufficiente, allora partiremo». S’avvierà la catena.

La retrovia
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Il primo anello è il materiale. A quello ci sta pensando Federico Poletti, Staff Jersey, 22 dipendenti e stock di maglierie e tessuti sportivi esportati in tutto il mondo. «Sì ma non dica che sono "il primo": Non è una singola azienda qui a fare la differenza. Ma tutto il distretto. Solo insieme possiamo trovare soluzioni». Il suo contributo l’ha portato partendo da un tessuto antibatterico che stava per essere spedito a un cliente. Un prodotto "chilometro zero", nato e cresciuto metro per metro nell’azienda. Un attimo, si è detto Poletti, forse potrebbe servire per produrre le mascherine che mancano nelle farmacie.

Qui entra in ruolo Emilio Bonfiglioli, chimico, papà del "Centro qualità tessile", dal 1984 controllore di ricami carpigiani. È il secondo anello della catena: il laboratorio. «Solitamente ci occupiamo di verificare resistenza, capacità di traspirare, tonicità; e cerchiamo ftalati e altre sostanze nocive che i prodotti tessili non devono contenere», racconta: «Ma nel distretto si sono sviluppati molto i filati antibatterici. Così abbiamo valutato il passaggio d’aria, eseguito prove di sanificazione e pulizia, e poi inviato i campioni a un laboratorio specializzato del biomedicale di Mirandola, perché eseguano delle analisi batteriologiche specifiche».

Se le fibre supereranno l’esame, la bobina di tessuto passerà a progettisti, tagliatori e sarte, di cui Carpi è patria d’elezione.

Stefano Forti si è detto disponibile a far parte di questa terza serie d’intervento: con il suo capannone da 1.300 metri quadri e dieci dipendenti specializzati, può aiutare a disegnare e avviare la realizzazione di maschere e di altri indumenti necessari agli operatori sanitari: tute, grembiuli, cuffie, copriscarpe. Tutto quello che serve: «Abbiamo delle macchine per il taglio automatico e due stenditori, oltre all’esperienza di modellistica in Cad. Quando arriverà la certificazione, possiamo partire». È un modo per aiutare, e per non spegnere l’attività. «Ho paura, lo ammetto», dice pensando alle commesse destinate alla sua "Pretty Moda", nodo italiano di una filiera globale, e che non vuole perdere. «Ora pensiamo alla salute. Ma dobbiamo essere pronti a reagire, a non perdere la difficile posizione che stavamo mantenendo».

Anche Tamara Gualandi è preoccupata. Insieme a Luciana Martinelli ha fondato "Donne da sogno" venticinque anni fa. «In questi anni è cambiato tutto. Noi reggiamo perché il 65 per cento delle nostre vendite è all’estero: Russia, Kazakhstan, Hong Kong, Taiwan, Stati Uniti». Gli abiti prodotti al cento per cento in Emilia Romagna viaggiano; ora che la globalizzazione trema, terrorizzata dall’epidemia, anche i vestiti restano sospesi in magazzino. «La cosa importante adesso è fermare il contagio. Per questo anche noi ci siamo messe a disposizione per la riconversione delle produzioni», racconta Gualandi: «Potremo aiutare nel coordinamento, nella confezione e nelle spedizioni». L’ultimo anello che mancava: dal tessuto, al taglio, alla cucitura, fino ai pacchi di mascherine pronte ad essere consegnati in farmacia. Una linea che collega Carpi al resto del Paese.