
Neppure la pandemia è riuscita a fermare il cantiere infinito del fisco all’italiana. È un cantiere tutto virtuale, perché proposte e progetti restano sospesi nel vuoto della politica, un fiume di parole destinato a perdersi nei mille rivoli di un dibattito che raramente approda alla verifica dei fatti, della realtà dei numeri e soprattutto dei conti pubblici.
Domenica 21 giugno, al termine degli Stati Generali, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato che il governo sta pensando a un intervento sull'Iva. Non ci sono certezze su tempi e modi dell'intervento. Di sicuro la manovra potrebbe costare almeno una decina di miliardi e non è affatto certo che il taglio dell'imposta sarebbe davvero in grado di rilanciare i consumi. Intanto la giostra degli annunci continua a girare.
La macchina della propaganda si è messa in moto già nei primi giorni dell’emergenza Covid. L’Italia era appena entrata nell’incubo del lockdown, con lo stop a quasi tutte le attività produttive, e il 3 di aprile un gruppetto di deputati di Forza Italia è partito alla carica sfoderando un progetto di pace fiscale, cioè il solito vecchio condono per chiudere a costo quasi zero le liti pendenti con l’erario. Una proposta di legge firmata tra gli altri dall’ex ministro Mariastella Gelmini e da Paolo Zangrillo, fratello di Alberto, il medico personale di Silvio Berlusconi nonché primario dell’Ospedale San Raffaele di Milano che di recente, in una delle sue innumerevoli comparsate televisive, è arrivato a dichiarare «clinicamente morto» il coronavirus.
Tempo qualche settimana e la destra ha portato nelle piazze, insieme al folklore dei cosiddetti gilet arancioni, anche migliaia di militanti che invocavano, oltre alla pace fiscale, anche la flat tax, vecchio cavallo di battaglia di Matteo Salvini. Poi è arrivato il comitato di esperti guidato da Vittorio Colao, che tra le “iniziative per il rilancio dell’Italia” inserisce anche le facilitazioni per il rientro dei capitali dall’estero (voluntary disclosure), rilancia gli incentivi per favorire il rafforzamento del patrimonio delle aziende e infine suggerisce alcune scorciatoie per ridurre il contenzioso tra imprese e Agenzia delle Entrate. Tutto questo mentre in Parlamento il dibattito sul decreto rilancio, quello che stanzia nuovi fondi pubblici per superare l’emergenza, si è ben presto impantanato tra centinaia di emendamenti che chiedono agevolazioni in materia d’imposta a favore delle più disparate categorie.
SOGNI E PROMESSE
Preso tra molti fuochi, il governo prova a tracciare una rotta che lo metta al riparo dalle proteste del popolo dei padroncini, dei professionisti e delle partite Iva, esasperati dal crollo dell’attività innescato dalla pandemia, e d’altra parte rassicuri i sindacati. Ecco allora che il 26 maggio, davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, ha promesso una «riforma fiscale ispirata ai principi di semplicità, di progressività, riduzione del carico fiscale sul lavoro e sull’impresa», condita con l’immancabile «contrasto all’evasione fiscale». Vasto programma. Da anni, per esempio, la riduzione della pressione fiscale è in cima alla lista delle promesse dei governi di Roma. Il Conte bis non fa eccezione. Questa volta però, con i conti pubblici dissestati dalla tempesta Covid, passare dalle parole ai fatti concreti appare quanto mai complicato. Già nel 2019 il peso dei tributi sul Pil è aumentato dal 41,9 al 42,4 per cento. E quest’anno la tendenza al rialzo è destinata a proseguire. Secondo quanto lo stesso governo ha messo nero su bianco nel Def (Documento di economia e finanza), la pressione fiscale salirà al 42,5 per cento nel 2020 per raggiungere il 43,3 per cento nel 2021.
Per invertire la rotta, Gualtieri sembra intenzionato a metter mano alle aliquote Irpef. Nei giorni scorsi sono circolate indiscrezioni su un ipotetico taglio e accorpamento degli scaglioni: dagli attuali cinque si passerebbe a quattro, abbassando al 36 per cento le due aliquote centrali, cioè quella del 41 per cento (redditi tra 55 mila e 75 mila euro lordi) e quella del 38 per cento (redditi tra 28 e 55 mila euro). Questa manovra, semmai dovesse trasformarsi in legge, finirebbe per favorire una platea di circa 8,2 milioni di contribuenti che guadagnano più di 28 mila euro.
Una simile riforma ovviamente ha un costo per le casse dello Stato. Secondo le stime degli analisti, gli introiti alla voce Irpef dovrebbero infatti ridursi di almeno 8 miliardi. In altre parole, il governo sarebbe costretto a trovare risorse supplementari per tappare l’ennesimo buco nel bilancio pubblico già in grande affanno, per usare un eufemismo, per via delle spese straordinarie legate all’emergenza Covid. Nel 2020, in base alle previsioni del Tesoro, il deficit è infatti destinato a impennarsi fino al 10,4 per cento dall’1,6 per cento registrato nel 2019, con la speranza, in verità molto ottimistica, di tornare al 5,7 per cento nel 2021.
«Con la riduzione delle aliquote da cinque a quattro finisce però per diminuire la progressività dell’imposta», osserva Francesco Tundo, ordinario di diritto tributario all’università di Bologna, autore del saggio appena pubblicato “Le 99 Piaghe del Fisco”. «Gli scaglioni andrebbero semmai aumentati e non diminuiti - afferma Tundo - se non altro per riaffermare il principio della progressività delle imposte garantito dalla nostra Costituzione all’articolo 53».
Parte da lontano la spinta della politica per la riduzione delle aliquote. Basti pensare che nel 1986 gli scaglioni erano ben 15. E quanto al principio della progressività della tassazione che ora il ministro Gualtieri sostiene di voler difendere a tutti i costi, un recente studio dell’Osservatorio dei conti pubblici diretto dall’economista Carlo Cottarelli dimostra che il fisco italiano appare già adesso allineato a quello di Spagna e Germania. In Francia e nel Regno Unito, invece, la curva delle aliquote è in proporzione più vantaggiosa per i contribuenti con i redditi più elevati. C’è il rischio concreto, quindi, che con un nuovo taglio degli scaglioni e la creazione di un’aliquota unica al 36 per cento per i redditi medio-alti, la proporzionalità del sistema finisca per diminuire avvicinando l’Italia al modello britannico.

VORAGINE NEI CONTI
Qualunque intervento sul fronte fiscale dovrà comunque confrontarsi con un crollo delle entrate tributarie senza precedenti nella storia repubblicana. Secondo i dati diffusi dal ministero dell’Economia, nei primi quattro mesi dell’anno mancano all’appello 5,6 miliardi. Da gennaio ad aprile gli incassi dell’erario sono diminuiti del 4,4 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019. Nel solo mese di aprile, che sconta il blocco quasi totale dell’attività economica, il calo delle entrate secondo i calcoli della Banca d’Italia ha toccato il 20,4 per cento. Gran parte della flessione nel primo quadrimestre di quest’anno è da attribuire all’Iva. L’imposta indiretta sui consumi ha fatto segnare una riduzione del 13,7 per cento, che corrisponde a 4,8 miliardi di minori introiti.
Le previsioni sono nere anche per il resto dell’anno. Il Def pubblicato dal governo a fine aprile prevede che nel 2020 verranno a mancare almeno 30 miliardi di entrate, poco più di 11 miliardi da addebitare alla voce imposte dirette, cioè Irpef, Ires sui profitti societari e ritenute sui redditi da capitale, e altri 19 miliardi sotto forma di minori incassi dai tributi indiretti, ovvero l’Iva e poco altro. La brusca correzione al ribasso interrompe un trend di crescita delle entrate tributarie che l’anno scorso aveva portato nelle casse dello Stato circa 11 miliardi in più rispetto al 2018, con un aumento del 2,3 per cento.
Il crollo di questi mesi si spiega in due modi. Da una parte il lockdown ha colpito i consumi e di conseguenza i tributi legati alle attività commerciali. Inoltre, il governo ha introdotto una gran quantità di sgravi fiscali per sostenere il reddito di cittadini e imprese danneggiati dalla pandemia. Le scadenze di numerose imposte sono state posticipate alla seconda metà del 2020 oppure rinviate all’anno prossimo e anche l’attività di contrasto all’evasione fiscale è praticamente ferma dal mese di marzo. Un caso su tutti, quello dell’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive che grava sulle aziende. Con il decreto liquidità dello scorso maggio, il governo ha rinunciato al saldo dell’Irap dovuta per il 2019 e alla prima rata del 2020. Un provvedimento molto apprezzato da Confindustria, che peraltro chiede da tempo una riforma di questo tributo. Intanto, secondo i calcoli dell’Ufficio parlamentare di bilancio, la cancellazione dei versamenti Irap finirà per provocare un buco di almeno 4 miliardi nei conti pubblici del 2020. Va ricordato che questa particolare imposta finisce nelle casse delle Regioni con lo scopo specifico di finanziare il servizio sanitario nazionale.
La pubblica amministrazione sarà quindi costretta a fare uno sforzo supplementare per far fronte alle spese per ospedali e medici di famiglia, spese che aumenteranno di molto a causa dell’emergenza Covid. Una possibile soluzione sarebbe il ricorso ai prestiti del Mes, il fondo salva Stati della Unione Europea che potrà erogare all’Italia fino a 35 miliardi a tassi prossimi allo zero destinati specificamente ad affrontare la crisi sanitaria. Nel governo non è ancora stata raggiunta un’intesa definitiva sull’opportunità di ricorrere a questi finanziamenti Ue, con una parte dei Cinque stelle fermi nella loro opposizione ai prestiti di Bruxelles. La decisione finale è attesa entro luglio. Può darsi però che si arrivi a settembre senza che Roma risponda all’Europa. Mentre il buco nei conti si allarga e la sanità affonda.