Ambiente
Il disastro climatico sulla mia pelle
Dobbiamo prendere atto che siamo immersi nel mistero e che il futuro non è più nelle nostre mani, ma è il frutto di una serie di variabili e noi non possiamo controllarle tutte
La proposta: Decarbonizzazione accelerata
La transizione ecologica radicale ci sarà se i primi a beneficiarne saranno i più vulnerabili. E allora: contrasto alla povertà energetica; sostegno alle comunità energetiche; spinta alla mobilità pubblica elettrica. E poi, combinare una decarbonizzazione accelerata con la promozione delle attività produttive che rendono l’Italia fra i paesi più pronti alla transizione e un mandato strategico forte all’Enel e alle altre imprese pubbliche. E niente avventure nucleari o riapertura di giacimenti gas.
Ormai ogni anno il clima ci porta i suoi disastri. E comincia a diventare probabile di viverli direttamente. Come dire: un’inondazione non si nega a nessuno. A me quest’anno il disastro climatico sembra che sia infinito. Sento un’umidità disastrosa al mio paese che non avevo mai sentito, come se invece del cielo sulle nostre teste ci fosse un tubo rotto. E sempre al mio paese mai avevo sentito un caldo così furioso. Da bambino riuscivo a mettermi steso al sole dalle due del pomeriggio fino alle sette di sera. È vero che la pelle era più sana, ma quest’anno la massima esposizione sul balcone che sono riuscito a tollerare è stata di cinque minuti.
Per la prima volta credo di aver sentito sulla mia pelle che il mutamento climatico esiste ed è grave. E poi ci sono le notizie di cronaca. Ero in Calabria nei giorni del mal tempo a Catania. Una mattina ho ascoltato alla radio che si attendeva qualcosa di disastroso. Non mi era mai capitato di avere paura viaggiando in macchina. E non pioveva, c’era solamente un cielo nero e l’incognita che poteva svilupparsi un uragano. Guardavo gli alberi con aria preoccupata, mi rilassavo solo quando la strada era sgombra di piante ai lati. Il caldo l’ho sentito in maniera violenta anche un giorno di giugno a Lecce, un giorno e pure la notte, un reading di poesie che si è trasformato in una sauna. E a Vasto in una sera d’agosto mi sembrava che si stesse sciogliendo il pugno di neuroni che portiamo in testa. Insomma, non mi è successo nulla di terribile, non sono stato dentro una catastrofe, ma è come se fossi da mesi dentro l’inganno climatico: d’estate non sapevo più cosa togliermi per non soffrire il caldo e ora non so più cosa mettermi per non soffrire il freddo.
Gli esseri umani sembrano compressi nello stesso parallelo emotivo, mentre il clima va avanti per eccessi, sbilanciamenti: non sarei sorpreso di vedere due metri di neve al mio paese. In questa ormai perenne metereopatia ho accolto con muta desolazione gli esiti del vertice sul clima che si è tenuto in Scozia. Non credo ci sia bisogno di andare a leggere nel dettaglio quello che è stato deciso o quello che non è stato deciso. La sensazione è chiara: per ora bisogna solo aggiornare certe espressioni. Una volta nel fissare un appuntamento si diceva: se vuole Dio e stiamo bene. Ora si dovrebbe dire: se vuole Dio e stiamo bene e c’è bel tempo. E la sensazione è la stessa che c’è per la pandemia. Nessuno sa veramente a che punto siamo. Dobbiamo prendere atto che siamo immersi nel mistero e che il futuro non è più nelle nostre mani, ma è il frutto di una serie di variabili e noi non possiamo controllarle tutte. Siamo al mondo nella corsia d’emergenza e questo ci deve invitare a essere molto accorti. Ci deve convincere che oggi non ci può essere nessuna scelta politica o artistica che non prenda in considerazione la crisi climatica. L’ecologia non è un partito, è una necessità. Serve un’ecologia che sia verde, per pulire il mondo; ma anche rossa, per lenire le disuguaglianze sociali; e azzurra, per risacralizzare il mondo.