«Mi dispiace per loro ma per i russi è finita l’epoca dello shopping a Milano e delle feste a St.Tropez». Con questo fine lessico diplomatico parlava su Twitter l’alto rappresentante europeo per la politica estera Thierry Breton, forse con qualche suggestione alcolica dopo lo stress della drammatica riunione in cui la commissione Ue ha deliberato martedì 22 febbraio le prime sanzioni contro Mosca.
I gioiellieri di via Montenapoleone e i ristoratori della Costa Azzurra non hanno avuto il tempo di mettere mano alla tastiera per replicare perché il tweet è stato ritirato per motivi di opportunità. Ma soprattutto perché ben altre, era chiaro fin da quel momento, saranno le conseguenze delle sanzioni e soprattutto delle controsanzioni russe, per l’economia europea e italiana in particolare. Altro che battute di spirito.
E quando all’alba del 24 febbraio è partito l’attacco su larga scala, è apparso subito chiaro che, in questa grande tragedia che è la guerra, il gioco per noi sarà devastante specialmente sotto il profilo energetico. Il 40% del gas italiano proviene dalla Russia (il secondo fornitore è l’Algeria con il 28,4%). Più esposta di noi è la Germania (oltre il 50% viene dalla Russia) ma Berlino ha a disposizione un nutrito parco di centrali nucleari e a carbone che sta spegnendo ma può riattivare se scoppia l’emergenza. Proprio per questo il cancelliere Olaf Scholz ha potuto giocare la carta più rischiosa, il rinvio sine die dell’apertura del gasdotto Nord Stream 2, destinato a raddoppiare la capacità di 50 miliardi di metri cubi di gas l’anno del Nord Stream 1 che corre parallelo (per avere un ordine di grandezza l’Italia ha consumato l’anno scorso 71,34 miliardi di metri cubi).
Tanto per cominciare i prezzi vanno alle stelle: dovevano ancora aprire i mercati ufficiali, nelle prime ore del giovedì dell’attacco, e già il gas era balzato di oltre il 40% superando i 120 euro per megawattora. «Già erano tremendamente alti come appare chiaro dalle bollette», spiega Davide Tabarelli, a capo di Nomisma Energia. «Siamo rimasti inchiodati per cinque settimane sul livello di 80 euro a megawattora, meno dei 180 toccati il 21 dicembre ma già quattro volte il prezzo di un anno e mezzo fa. Poi è accaduto l’irreparabile». A questo punto, i prezzi «non potranno che salire ancora e ancora, il ritmo delle aziende italiane costrette a chiudere i battenti si impennerà, per non parlare delle conseguenze per le famiglie». Bisogna affrettare la diversificazione delle fonti, ma non è semplice: il gasdotto Libia-Sicilia ha ovvi problemi di gestione, le forniture di gas liquefatto via mare incontrano un ostacolo nella carenza di rigassificatori («ne abbiamo solo tre in servizio, a La Spezia, Livorno e Rovigo, quando negli anni ’70 ne avevamo 11», rimpiange Tabarelli), i colloqui con l’Azerbajian per potenziare il Tap (che sbocca in Puglia) sono a “caro amico”.
La speranza paradossalmente risiedeva, fino all’attacco finale che è però partito, nel pragmatismo del Cremlino: il gas è l’ultima spiaggia delle sanzioni e una valvola vitale per l’Europa ma è anche una miniera d’oro per Putin, che si spera non vorrà rischiare di perderla. Il meccanismo delle ritorsioni e delle contro-ritorsioni è ormai inarrestabile.
Per prima cosa gli uffici occidentali hanno preso nota di alcuni nomi: Rossiya, Is Bank, General Bank, Promsvyazbank, Black Sea Bank. E poi Gennadj Timchenko, Boris Rotenberg, Igor Rotenberg. Le prime cinque sono le banche russe più attive nella regione del Donbass, i tre uomini sono invece alcuni degli oligarchi che si arricchiscono mercanteggiando grano e risorse minerarie dell’area. Per tutti è scattato già nella settimana dell’operazione in Donbass, invasione il bando occidentale. Non possono più effettuare alcuna operazione fuori del territorio russo.
Se il principio resterà quello della proporzionalità rispetto alle mosse di Mosca, che hanno superato l’immaginabile, ora scatterà sicuramente l’embargo sulle grandi banche nazionali: Sberbank (un gigante finanziario fondato nel 1841 con 300mila dipendenti e 440 miliardi di dollari di asset), e poi Vneshtorgbank, Gazprombank, Otkritie (l’unica privata). Colpirle significherebbe però esporsi alle sicure ritorsioni di Mosca. «E’ successo così nel luglio 2014, quando dopo l’invasione della Crimea e la ridda di reazioni e controreazioni fu bersagliato proprio il nostro settore, l’agroalimentare», ricorda Luigi Scordamaglia, a capo di Filiera Italia che riunisce i nomi più splendenti del Made in Italy gastronomico. «Da allora il mercato russo è rimasto irrimediabilmente compromesso, anche perché le sanzioni relative alle Crimea restano in vigore, e le aziende alimentari hanno perso almeno un miliardo e mezzo in questi anni. Ora l’export agroalimentare non supera i 500 milioni e rischiamo di perdere ancora posizioni vista la concorrenza dell’italian sounding, i prodotti locali che evocano il nostro Paese e che vanno a ruba a testimonianza della nostra popolarità e quindi dell’opportunità che perdiamo». Il settore alimentare è bersagliato anche per un altro motivo: Russia e Ucraina insieme rappresentano un terzo della produzione mondiale di grano e cereali, e la tensione nell’area con i conseguenti ribassi nelle produzioni fa schizzare i prezzi dei future: alla Borsa merci di Chicago i rialzi sono anche del 20% in un giorno. E l’Italia è uno dei più forti importatori al mondo di queste materie prime.
Ma il malessere va ben al di là dell’agroalimentare: anche l’export nel suo complesso non si è più ripreso dopo la Crimea e ha perso progressivamente posizioni fino al crackdown di questa settimana. Le esportazioni italiane in Russia erano pari a 10,77 miliardi di euro nel 2013, sono scese via via fino a 6,69 miliardi nel 2016. Dopodiché avevano iniziato una lenta risalita ma si sono fermate a 7,70 miliardi nel 2021, il 34% in meno del livello originario. E molto meno delle importazioni (quasi tutte costituite dal gas e da altre materie prime) che hanno raggiunto i 12,6 miliardi di euro. Va invece bene l’export verso l’Ucraina: anche qui alimentari e bevande contano molto (il 18%) su un totale che ha superato i 2 miliardi l’anno scorso con un rialzo del 16,4% sul 2020, l’anno della grande crisi Covid quando il ribasso era stato però contenuto nel -3%.
In questo gioco al massacro economico aleggia tra le tante una minaccia pronunciata dalla presidente della commissione Ue, Ursula von der Leyen, già all’invasione di Donetsk e Lugansk e poi ribadita nel drammatico discorso della mattina dell’attacco a Kiev: bloccare l’accesso dello Stato e del governo russi ai mercati finanziari europei. «Sarebbe una catastrofe per uno Stato fortemente indebitato, ma la Russia come ogni Paese petrolifero è ridondante di cash e il suo debito pubblico non supera il 18% del Pil», obietta Brunello Rosa, docente alla London School of Economics. Altrettanto perigliosa, oltre che probabilmente controproducente per l’occidente, sarebbe l’altra “arma-fine-di-mondo”, l’espulsione di Mosca dallo Swift, il sistema bancario dei pagamenti globali al quale sono associati 11mila istituti di 200 Paesi. «Senza un “socio” del peso della Russia il sistema mondiale sarebbe irreparabilmente indebolito al punto di perdere efficacia», dice Rosa.
Ancora una volta, come sempre quando viene meno un caposaldo globale, le peggiori conseguenze cadrebbero sui Paesi più deboli come l’Italia. L’America può fare benissimo a meno di Swift: prima di giocarsi questa carta «occorre pensarci due e più volte», ha ammonito dalle colonne del Financial Times l’olandese Klaas Knot, presidente del Financial Stability Board. La partita è delicatissima perché c’è il rischio, oltre alla guerra, «di innescare una recessione mondiale proprio mentre si cerca di dimenticare quella da Covid», ricorda l’economista Lorenzo Bini Smaghi. «E’ questa preoccupazione a guidare le posizioni dell’Italia, che almeno fino all’attacco a Kiev era iscritta al partito delle colombe insieme con Francia e Germania, mentre i Paesi baltici, gli americani, i polacchi, volevano impugnare subito il bazooka», spiega l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, oggi presidente dell’Istituto Affari Internazionali. «Poi fortunatamente per gli equilibri atlantici, quanto mai cruciali, è stato trovato un compromesso». A questo proposito, Riccardo Perissich, una vita nelle istituzioni internazionali (tra l’altro capo di Gabinetto di tre commissari a Bruxelles e direttore generale per l’Industria), commenta: «Se non altro portiamo a casa un risultato positivo: l’Europa ha ritrovato in questa tragica vicenda la sua unità. Serviva la torva aria di Putin, le sue minacce, i suoi carri armati nelle città ucraine, a farci riscoprire un continente coeso e unito nel rifiutare la violenza e le violazioni del diritto». Così, tutto l’occidente unito assiste attonito a una guerra del tutto impensabile fino a poche settimane fa.